Per la prima volta dopo quasi un anno, i governi di Russia e Stati Uniti sono tornati a incontrarsi con rappresentanti di altissimo livello in un contesto che sembrava aprire qualche scenario utile a intavolare un negoziato di pace sull’Ucraina. Anche dal punto di vista più ottimista possibile, l’incontro di lunedì ad Ankara tra il numero uno dell’intelligence estera russa (SVR), Sergey Naryshkin, e il direttore della CIA, William Burns, rappresenta però solo un primissimo passo verso un futuro cessate il fuoco. Solo per arrivare a questo risultato, dovranno essere superati ostacoli che le condizioni odierne del conflitto rendono a dir poco enormi, a cominciare dalla doppiezza e dall’incapacità organica del governo americano a trattare in buona fede e a rispettare gli impegni presi.

 

È sufficiente leggere il resoconto del vertice offerto dalla Casa Bianca per comprendere l’attitudine e il grado di serietà dell’amministrazione Biden. Per il governo USA, il faccia a faccia sarebbe servito a mettere in guardia il Cremlino dall’uso di armi nucleari, mentre l’evento non avrebbe avuto in nessun modo l’obiettivo di discutere di una possibile intesa sul conflitto in Ucraina. La dichiarazione ufficiale ha dovuto con ogni probabilità tenere conto di un problema di pubbliche relazioni in merito al regime di Kiev. Ammettere cioè apertamente l’esistenza di una trattativa o di un semplice dialogo tra Stati Uniti e Russia sulla guerra comporterebbe l’emarginazione formale dell’Ucraina, portando alla luce il ruolo effettivo di burattino di Washington di Zelensky.

L’argomento delle armi nucleari non ha ad ogni modo nessun fondamento nella realtà dei fatti. Mosca non ha la minima intenzione né potrebbe trarre vantaggi dal ricorso a questi ordigni in Ucraina e gli USA ne sono perfettamente consapevoli. Secondo un commento del blog MoonOfAlabama, è quindi ragionevole ipotizzare che Burns non abbia nemmeno sollevato l’argomento con la sua controparte. La presunta minaccia dell’uso di armi nucleari “tattiche” da parte russa era stata una “fake news” diffusa dalla Casa Bianca al preciso scopo di screditare Putin e alimentare le pressioni internazionali sul Cremlino.

L’incontro nella capitale turca, richiesto da Washington, è piuttosto il segnale di un crescente sentimento di preoccupazione, se non di disperazione, da parte americana per la sorte immediata del regime e delle forze armate ucraine. Nonostante la “vittoria” di Kherson, le prospettive non sono incoraggianti, né appaiono sostenibili a lungo gli sforzi dei governi occidentali per tenere in piedi finanziariamente e militarmente un paese letteralmente devastato.

Ci sono svariati segnali, apparsi spesso sulla stessa stampa “mainstream”, del moltiplicarsi delle opinioni contrarie a un’intensificazione dell’impegno bellico anche ai massimi livelli dell’apparato di potere USA. Le parole del capo di Stato Maggiore americano, generale Mark Milley, hanno fatto il giro del mondo qualche giorno fa, rendendo di dominio pubblico le posizioni contrastanti sulla situazione ucraina tra i militari e il dipartimento di Stato. Milley ha spiegato in definitiva che i risultati ottenuti fin qui da Kiev rappresentano il massimo possibile e, per questa ragione, il periodo invernale dovrà essere sfruttato per “consolidare i successi al tavolo delle trattative”. Al contrario, spiegano i media americani, i vertici del dipartimento di Stato e del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, dominati da falchi “neocon”, ritengono che questo non sia il momento per fare un passo indietro sul piano militare.

L’ex analista della CIA e commentatore indipendente, Larry Johnson, in un articolo pubblicato sul suo blog si è chiesto legittimamente per quale motivo gli Stati Uniti incoraggino l’Ucraina ad aprire alle trattative con Mosca se la riconquista di Kherson rappresenta davvero un successo strategico decisivo e la Russia si ritrova sull’orlo del fallimento. Continua Johnson: “Dietro l’euforia occidentale per il ritiro tattico di Mosca dalla città di Kherson si nascondono le pressioni crescenti delle popolazioni dei paesi NATO per mettere fine al supporto finanziario all’Ucraina” mentre esse stesse soffrono le conseguenze dell’inflazione alle stelle e dell’economia in contrazione.

MoonOfAlabama cita in aggiunta le difficoltà americane a tenere il passo delle forniture militari a fronte del costante martellamento dell’artiglieria russa. I sintomi di una carenza di munizioni da inviare al regime di Kiev sono molteplici, come quello riportato dai giornali nei giorni scorsi con la notizia del possibile acquisto da parte del Pentagono di 100 mila munizioni da 155mm dalla Corea del Sud. Secondo molti analisti militari si tratterebbe di un grave segnale dello svuotamento delle scorte americane e ancora più allarmante per Washington se si considerano i dettagli della notizia. Alcuni giornali hanno definito “ingente” l’acquisto di 100 mila munizioni, ma, secondo le stesse fonti ucraine, la Russia ne utilizzerebbe in media 60 mila al giorno nelle operazioni in corso.

La questione solleva una considerazione di carattere più ampio, da ricondurre a sua volta alla probabile necessità americana di arrivare in fretta almeno a un cessate il fuoco in Ucraina. Gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa non dispongono ormai più di un apparato industriale sufficiente a sostenere uno sforzo bellico di lunga durata contro una grande potenza, le cui capacità sono ben diverse da quelle dei Talebani o dell’esercito iracheno di Saddam Hussein.

Senza un costante rifornimento di armi e munizioni, insomma, l’Ucraina è destinata a essere sopraffatta da una Russia che sta completando la mobilitazione di uomini e mezzi per moltiplicare il proprio impegno militare. A ciò vanno aggiunti i gravissimi danni alle infrastrutture e alle vie di comunicazione provocate dai bombardamenti russi. Non sorprende dunque che l’amministrazione Biden, davanti all’ostilità crescente delle popolazioni occidentali e le difficoltà logistiche, intenda spingere sotto traccia per una tregua.

È scontato peraltro che Mosca abbia già letto il bluff di Washington. L’obiettivo americano sembra essere principalmente quello di mettere in pausa il conflitto per riorganizzare i piani di guerra nei mesi invernali. La disponibilità al dialogo e al negoziato sempre mostrata da Putin non esclude infatti la fermezza nel perseguire gli scopi delle operazioni iniziate a febbraio e l’ottenimento di determinate garanzie di sicurezza, respinte dalla NATO nei mesi precedenti l’esplosione del conflitto.

Sul piano concreto, d’altra parte, gli Stati Uniti continuano a preparasi per una guerra di lunga durata, in linea con l’obiettivo strategico di indebolire, se non smembrare, la Russia e sganciarla definitivamente dall’Europa nel quadro del tentativo di boicottaggio delle dinamiche di integrazione euroasiatica in atto. La creazione di un comando speciale in Germania con centinaia di addetti militari ufficialmente per gestire gli aiuti da destinare all’Ucraina rappresenta a questo proposito un’iniziativa che sembra prospettare un’intensificazione dell’offensiva anti-russa, con tutti i rischi e i pericoli che ne conseguono.

I colloqui di lunedì ad Ankara tra Burns e Naryshkin potevano essere in ogni caso un elemento positivo nel buio di questi mesi. Anche se non ci sono stati commenti ufficiali sull’esito, gli eventi di martedì hanno suggerito che il vertice non sia andato a buon fine. Zelensky è stato protagonista di un intervento delirante e tutt’altro che pacifico al G-20 di Bali, mentre la Russia ha lanciato bombardamenti sull’Ucraina tra i più intensi in assoluto nell’ultimo mese.

Non è comunque da escludere del tutto che i contatti tra USA e Russia possano riprendere o venire approfonditi nelle prossime settimane. Gli spiragli emersi o che emergeranno non fanno tuttavia intravedere al momento possibilità concrete di una pace duratura. Le ragioni della guerra provocata deliberatamente da Washington vanno ben al di là dell’Ucraina e, salvo ripensamenti indotti forzatamente da una crisi economica e sociale esplosiva o dalla frantumazione del fronte NATO, la situazione in Europa orientale sembra destinata a scivolare – presto o tardi – verso un rovinoso aggravamento del conflitto in corso.

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