L’allarme lanciato dal ministero della Difesa russo circa il possibile utilizzo di una bomba “sporca” da parte del regime ucraino ha come previsto provocato la netta smentita sia di Kiev sia dei governi occidentali. Una provocazione a questo punto del conflitto in Ucraina avrebbe però senso, almeno in teoria, e, oltretutto, i precedenti attribuibili a Stati Uniti ed Europa non mancano di certo. Il livello di disperazione che si registra a Washington e nelle capitali europee è tale da far pensare a un’iniziativa clamorosa nei prossimi giorni o settimane, anche se ci sono segnali, per il momento per lo più sotto traccia, di una crescente impazienza per la situazione sul fronte ucraino e della volontà di creare le condizioni per la riapertura di un tavolo diplomatico.
L’appuntamento con le elezioni di “metà mandato” negli USA tra due settimane sta diventando una scadenza entro la quale la galassia “neo-con”, che controlla in gran parte il dipartimento di Stato e la Casa Bianca, intende portare a termine un’operazione eclatante sia per risollevare le sorti del Partito Democratico sia per cercare di isolare la Russia e garantire continuità alle politiche di appoggio incondizionato al regime di Zelensky. In questa prospettiva va letto l’avvertimento del ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, sullo stato avanzato dei preparativi per l’impiego di un ordigno convenzionale in combinazione con materiale radioattivo.
Secondo Shoigu, il regime ucraino sarebbe assistito dai governi occidentali, a cominciare da quello britannico, e le sue preoccupazioni, assieme con ogni probabilità a un fermo avvertimento, sono state espresse nel corso di vari colloqui telefonici avuti nel fine settimana con gli omologhi americano, francese e, appunto, britannico. L’obiettivo sarebbe quello di attribuire la responsabilità dell’esplosione alla Russia, così da alimentare ulteriormente l’escalation del conflitto e giustificare, secondo alcuni, un intervento diretto delle forze NATO. Se quest’ultimo elemento appare improbabile al momento, è possibile che i governi occidentali sperino di convincere quei paesi soprattutto in Asia e in Medio Oriente ancora su posizioni neutrali a sganciarsi da una Russia responsabile di avere fatto uso di armi nucleari.
Non è ad ogni modo semplice interpretare le mosse e i bluff di coloro che partecipano direttamente o indirettamente alla guerra. Una notizia data nel fine settimana dalla CBS sembra da un lato inserirsi nel quadro del crescendo di provocazioni occidentali. La Casa Bianca avrebbe cioè autorizzato l’invio di altri 5 mila uomini sul fronte dell’Europa orientale, pronti a entrare in azione contro i russi nel caso questi ultimi dovessero intraprendere una qualche azione di ampia portata in Ucraina.
I militari della 101esima Divisione Aviotrasportata stanno conducendo esercitazioni in funzione anti-russa in Romania, ma altre fonti hanno gettato acqua sul fuoco nonostante l’apparente gravità dell’iniziativa americana. Analisti militari indipendenti fanno notare come un numero così esiguo di uomini, di fronte a una mobilitazione ordinata dal Cremlino di circa 300 mila soldati, avrebbe poca o nessuna utilità in termini pratici. Altri ancora rilevano la coincidenza della notizia con il colloquio telefonico tra i ministri della Difesa russo e americano, rispettivamente il già citato Shoigu e Lloyd Austin. La conversazione sarebbe avvenuta su richiesta del numero uno del Pentagono e tra le ipotesi che circolano c’è quella di rassicurare Shoigu sul fatto che Washington non ha intenzione di inviare truppe di terra in Ucraina. Quanto meno non in maniera formale, visto che “consiglieri”, agenti dell’intelligence e delle forze speciali già operano sul campo a fianco dell’esercito ucraino.
Singolari sono anche le dichiarazioni rilasciate dal comandante della 101esima Divisione, generale John Lubas, il quale ha spiegato che i suoi uomini sono “pronti a difendere ogni singolo centimetro di territorio NATO”. Formalmente, però, l’Ucraina non fa parte della NATO e Mosca non ha mai minacciato di colpire o invadere nessun paese dell’Alleanza. È evidente di conseguenza che la decisione dell’amministrazione Biden rappresenta una mossa d’anticipo in vista di qualche provocazione o è un’azione per così dire di “pubbliche relazioni”, utile a convincere l’opinione pubblica occidentale dell’inevitabilità di un maggiore coinvolgimento nella guerra.
Per quanto riguarda i precedenti delle provocazioni messe in atto ad hoc dagli Stati Uniti e dai loro alleati, per poi darne la colpa a governi nemici bersaglio di operazioni di destabilizzazione, gli esempi sono molteplici. Uno degli episodi più recenti è quello della Siria e delle armi chimiche impiegate a Ghouta, un sobborgo di Damasco, nel 2013. Un’indagine del veterano giornalista Seymour Hersh aveva in seguito smentito la ricostruzione ufficiale americana, rivelando che a utilizzare il famigerato gas sarin erano stati i “ribelli” siriani con la collaborazione dell’intelligence USA e britannica. Il piano faceva seguito all’avvertimento dell’allora presidente Obama che il ricorso ad armi chimiche da parte del regime di Assad avrebbe rappresentato il superamento di una “linea rossa” e fatto scattare un intervento armato da parte di Washington.
In quell’occasione, l’ennesima aggressione americana era stata alla fine evitata grazie a svariati fattori. Uno dei quali, come aveva rivelato a suo tempo Hersh e ha ribadito nel fine settimana l’ex analista della CIA Larry Johnson citando la sua esperienza diretta nei fatti, erano le resistenze dei vertici del Pentagono che avevano verificato l’inconsistenza delle accuse nei confronti di Damasco e avvertito dei rischi dell’esplosione di un nuovo conflitto di ampia portata in Medio Oriente.
Falchi e colombe
L’irresponsabilità di quei settori dell’apparato politico e militare in Occidente che stanno verosimilmente tramando per fare precipitare la situazione in Ucraina è difficile da sopravvalutare. Partendo dalla premessa che la Russia si è indebolita dopo otto mesi di guerra e che a un certo punto farà un passo indietro se le pressioni saranno abbastanza forti, la NATO continua a percorrere la strada verso il disastro. Per Mosca, tuttavia, l’importanza strategica dell’Ucraina è semplicemente vitale e la minaccia di usare tutto il proprio potenziale bellico deve essere presa alla lettera.
L’auspicio è evidentemente che prevalga la ragionevolezza in Occidente, anche se ad oggi ci sono pochissimi indizi che ciò possa accadere. Le sparate degli esponenti del regime ucraino continuano ad esempio a essere prese per buone da stampa e governi occidentali, invece di essere condannate per quello che rappresentano, ovvero provocazioni che rischiano fare esplodere il conflitto. L’ultima uscita di Zelensky è solo di qualche giorno fa. L’ex comico ha avvertito che un eventuale attacco russo contro i centri di comando ucraini sarà seguito da immediati bombardamenti contro obiettivi simili a Mosca, evidentemente condotti dalla NATO. È superfluo inoltre ricordare l’invito di qualche settimana fa dello stesso Zelensky a colpire “preventivamente” la Russia con armi nucleari.
Il fronte anti-russo è ad ogni modo meno compatto di quanto appaia a livello esteriore. Se le azioni non lasciano per ora trasparire nessuna esitazione, nelle dichiarazioni pubbliche filtrano talvolta tensioni e malumori che circolano quasi certamente dietro le quinte. Queste opinioni vengono espresse riguardo sia la situazione militare sia, per lo più, i riflessi negativi in termini economici della guerra e delle (auto-)sanzioni dirette in teoria contro la Russia.
Il più esplicito in questo senso negli ultimi giorni è stato il ministro della Difesa britannico, Ben Wallace. Dopo la già ricordata telefonata con la sua controparte russa, Wallace ha assicurato che il suo paese è “pronto a fornire assistenza” nel trovare una soluzione diplomatica alla guerra in corso. Inoltre, Wallace ha affermato che Londra vorrebbe arrivare a una “de-escalation del conflitto”, anche se non ha manifestato nessuna intenzione di spingere Kiev a negoziare o di rallentare il ritmo degli aiuti militari al regime di Zelensky.
In questa fare sembra esserci insomma poco appetito per una rottura anche minima dell’apparente unità NATO sotto la guida di Washington. Il discorso vale anche per il presidente francese Macron che, in un intervento nel fine settimana a Roma, ha anticipato che la “comunità internazionale” prima o poi dovrà appoggiare un accordo di pace tra Kiev e Mosca. Però, ha aggiunto Macron, i termini dei negoziati dovranno essere dettati dall’Ucraina.
Non c’è insomma ancora la disponibilità a riconoscere pubblicamente che i territori persi dall’Ucraina molto difficilmente torneranno sotto il controllo di Kiev. Addirittura, esprimere questo concetto, che risponde semplicemente alla realtà dei fatti, può costare molto caro. Il ministro della Difesa romeno, Vasile Dincu, è stato infatti licenziato nei giorni scorsi per avere affermato che l’Ucraina avrebbe potuto cedere parte del suo territorio alla Russia nell’ambito di potenziali colloqui di pace.
È verosimile che lo scontro tra falchi e colombe in Occidente sarà deciso dagli eventi politici ed economici delle prossime settimane. Il possibile ritorno al potere al Congresso di Washington di un Partito Repubblicano dominato dall’ala trumpiana potrebbe raffreddare gli entusiasmi per i finanziamenti a fondo perduto destinati all’Ucraina. D’altro canto, il peggioramento della situazione economica, energetica e sociale in Europa come negli Stati Uniti minaccia di destabilizzare molti paesi, le cui popolazioni manifestano uno scarsissimo interesse per la difesa della (nazi-)democrazia ucraina a discapito delle loro condizioni di vita.
Macron e il “doppio standard”
Riconducibile allo stesso sentimento di impazienza verso un governo americano che sta in definitiva conducendo un’operazione di auto-distruzione dell’economia europea sono anche altre recenti dichiarazioni pubbliche di Macron. Qualche giorno fa, a margine di un vertice UE a Bruxelles, l’inquilino dell’Eliseo aveva criticato le politiche commerciali ed energetiche americane per via del “doppio standard” a cui sono improntate. Washington vende cioè il proprio gas all’Europa a prezzi molto più alti rispetto a quello applicato agli utenti americani. Non solo, Macron aveva bollato come scorretti i provvedimenti volti a contenere i costi dell’energia contenuti nel cosiddetto “Inflation Reduction Act” fatto approvare dall’amministrazione Biden.
Il presidente francese aveva in precedenza attaccato sempre gli Stati Uniti e la Norvegia per i “superprofitti” che le loro compagnie energetiche stanno raccogliendo grazie al conflitto in corso. Anche il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, nel corso di un dibattito parlamentare aveva evidenziato come gli Stati Uniti applichino all’Europa un prezzo del loro gas liquefatto (LNG) quattro volte più alto rispetto a quello del mercato domestico. Questo risentimento ostentato pubblicamente, al di là del fatto che esprime una verità ovvia da tempo, segnala un crescente malcontento per le politiche suicide imposte da Washington all’Europa, sia pure senza assolvere i leader che si sono piegati rapidamente ai diktat americani ben sapendo le conseguenze devastanti che ne sarebbero derivate per i loro paesi.