Il governo di minoranza del presidente Macron questa settimana ha ricorso per la prima volta dall’inizio della nuova legislatura a un articolo della Costituzione francese che permette all’esecutivo di fare approvare una determinata legge senza il voto del Parlamento. L’espediente si è reso per così dire necessario in merito al piano di bilancio del 2023 vista l’indisponibilità dei partiti di opposizione ad approvare la proposta del governo, privato dopo il voto del maggio scorso della maggioranza assoluta all’Assemblea Nazionale. La manovra anti-democratica decisa da Macron si inserisce in un clima di estrema tensione in Francia e, significativamente, all’indomani della conclusione forzata di uno sciopero nel settore petrolifero che, fino alla scorsa settimana, aveva quasi paralizzato il paese.

 

Macron aveva dato il via libera all’uso dell’articolo 49-3 della Costituzione già alcuni giorni fa, ma il suo primo ministro, Elisabeth Borne, si era affrettata ad assicurare che ci sarebbe comunque stato un dibattito in aula sulla proposta di bilancio. La situazione è però sfuggita di mano in fretta, con il governo che è andato sotto ripetutamente nel voto sui primi delle migliaia di emendamenti presentati alla legge. Martedì, alla fine, la premier ha invocato la disposizione costituzionale che consente di bypassare il Parlamento, andando incontro alle durissime proteste dell’opposizione.

Molti deputati della coalizione NUPES (“Nouvelle Union Populaire, Écologique et Sociale”), formata dal partito “La France Insoumise” di Jean-Luc Mélenchon, dai socialisti e dai Verdi, hanno abbandonato l’aula dopo l’intervento della Borne. Sia NUPES sia l’ex Fronte Nazionale di Marine Le Pen – ora “Rassemblement National” (RN) – hanno inoltre presentato ciascuno una propria mozione di sfiducia contro il governo, unico meccanismo a disposizione per impedire l’approvazione della legge senza il voto del Parlamento.

Nessuno dei due gruppi di parlamentari ha però appoggiato la mozione dell’altro, garantendo così il successo del governo. Un esito, quest’ultimo, assicurato anche dalla decisione di non votare la sfiducia da parte dell’altro principale partito di opposizione, i gollisti di “Les Républicains” (LR), non interessato, come ha spiegato un suo deputato, ad “aggiungere caos al caos”.

I fatti di martedì sono stati molto probabilmente un test di quanto il governo prevede di fare per superare l’ostacolo parlamentare e mandare in porto una serie di proposte economiche e sociali impopolari. Prima fra tutte la “riforma” pensionistica con l’innalzamento dell’età di accesso. Secondo alcuni, l’approvazione definitiva del bilancio per il prossimo anno potrebbe richiedere fino a sette volte l’invocazione dell’articolo 49-3 da parte del governo.

La retromarcia dell’esecutivo e il ricorso a un dispositivo anti-democratico per ottenere l’approvazione del bilancio sono stati motivati anche dal timore di ritrovarsi nella versione definitiva alcune misure sfavorevoli ai redditi più alti. Ad esempio, gli emendamenti approvati nei giorni scorsi includevano una tassa sui “super dividendi” delle aziende e la cosiddetta “super tax” che graverà su coloro che spostano beni e denaro fuori dalla Francia.

Il destino di questi emendamenti è però incerto, visto che, una volta implementato l’articolo 49-3, il governo ha facoltà di conservare o stralciare le modifiche votate dal Parlamento. La premier Elisabeth Borne ha assicurato che circa 100 emendamenti sui 117 approvati faranno parte del bilancio 2023, inclusi alcuni proposti dall’opposizione. Il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire, ha tuttavia avvertito che verranno bocciate tutte le modifiche potenzialmente in grado di “creare voragini” nel bilancio.

Per il momento, ci sono pochi dubbi che le vicende parlamentari di questa settimana rappresentino una vittoria per l’Eliseo e il governo di minoranza. Al di là della retorica, l’opposizione ha scelto chiaramente la stabilità del sistema, preferendo di fatto astenersi dal mandare in crisi un esecutivo assediato ma in parte rinfrancato dall’esito dello sciopero dei lavoratori delle raffinerie francesi.

Settimana scorsa, il governo aveva emesso un decreto per forzare il ritorno alle attività lavorative di un settore la cui mobilitazione aveva svuotato buona parte delle pompe di carburante del paese. In un clima di estrema tensione, alimentata dalle conseguenze della guerra in Ucraina e delle (auto-)sanzioni UE teoricamente dirette contro la Russia, anche i vertici sindacali hanno fatto la loro parte per consentire al governo di stabilizzare la situazione.

Come di consueto, soprattutto il principale sindacato francese (CGT) ha fatto di tutto per far rientrare lo sciopero, con la scusa di un raffreddamento degli entusiasmi dei lavoratori, mentre sono stati i suoi stessi dirigenti a essersi adoperati per isolare la mobilitazione e spegnere ogni ipotesi di allargare la battaglia ad altre categorie sul piede di guerra.

Non è infatti un caso, come si diceva all’inizio, che la decisione di Macron di forzare l’approvazione del nuovo bilancio, dove tra l’altro sono previsti un forte aumento delle spese militari e il taglio dei sussidi al prezzo dell’energia, sia stata messa in atto subito dopo avere ottenuto la sostanziale sconfitta dello sciopero nel settore petrolifero.

Ad ogni modo, sia la conclusione forzata dello sciopero sia il ricorso all’articolo 49-3 indicano una nuova accelerazione in senso autoritario di una classe dirigente che, quanto meno dall’arrivo di Macron all’Eliseo, ha presieduto a un’erosione costante delle “formalità” democratiche. Un’involuzione comune a praticamente tutti i governi europei e che è destinata ad aggravarsi con il peggiorare della crisi ucraina e del quadro economico e sociale nei prossimi mesi.

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