Anche il nuovo tentativo diplomatico promosso dall’Europa per mandare in porto l’accordo bis sul nucleare iraniano (JCPOA) si è per il momento risolto in un nulla di fatto. I negoziati erano ripresi settimana scorsa a Doha, in Qatar, nella speranza di avvicinare le posizioni di Stati Uniti e Iran, ma il summit si era chiuso con uno scambio reciproco di accuse. La serietà dell’amministrazione Biden nel raggiungere un’intesa con Teheran è apparsa nuovamente chiara mercoledì, quando il dipartimento di Stato ha colpito con le proprie sanzioni unilaterali altre 15 “entità” della Repubblica Islamica e di altri paesi, accusate di favorire l’esportazione e la vendita di greggio iraniano.

 

Le società prese di mira hanno sede legale, oltre che in Iran, in Cina, negli Emirati Arabi, in Vietnam, a Singapore e a Hong Kong. L’accusa è di avere aggirato le sanzioni USA per fare arrivare “prodotti petrolchimici” iraniani, “per un valore di centinaia di milioni di dollari”, in Asia orientale. Queste iniziative americane vengono rappresentate come atti che rispondono a qualche principio codificato dal diritto internazionale o a misure decise da organi sovranazionali. In realtà, si tratta di decisioni unilaterali di natura esclusivamente politica, che non prevedono una supervisione giudiziaria né appello e sono basate su valutazioni coerenti con gli interessi di politica estera di Washington. Alle persone e alle società colpite dai provvedimenti è proibito intrattenere rapporti d’affari con entità americane e i loro eventuali beni negli Stati Uniti vengono congelati.

Il tempismo delle nuove sanzioni è abbastanza chiaro. L’amministrazione Biden intende aumentare le pressioni su Teheran in conseguenza della presunta mancanza di collaborazione nel raggiungere un accordo sulla questione del nucleare. Da un punto di vista pratico, anche questa tornata di sanzioni farà poco o nulla per penalizzare l’Iran, che infatti continua a vendere petrolio a un ritmo sostenuto a svariati paesi asiatici, a cominciare dalla Cina.

Il collegamento tra quest’ultima tornata di sanzioni e il fallimento dei negoziati di Doha è stato spiegato dal sottosegretario al Tesoro USA, Brian Nelson. Ribaltando totalmente la realtà dei fatti, quest’ultimo ha affermato che, “mentre gli Stati Uniti sono impegnati a raggiungere un accordo con l’Iran per tornare al rispetto reciproco del JCPOA, continueremo a utilizzare quanto è in nostro potere per implementare sanzioni” che ostacolino “la vendita di petrolio e di prodotti petrolchimici iraniani”. Ancora più esplicita è stata la spiegazione offerta dal segretario di Stato, Anthony Blinken, secondo il quale gli Stati Uniti hanno agito con “fermezza e sincerità” per ripristinare l’accordo sul nucleare. È l’Iran, tuttavia, “che finora non è stato in grado di dimostrare un impegno simile”. Senza un cambiamento di rotta da parte di Teheran, quindi, anche per Blinken le sanzioni si moltiplicheranno.

L’atteggiamento degli Stati Uniti è improntato alla mala fede su tutta la linea, dal momento che nasconde precisamente la loro incapacità nel chiudere una volta per tutte le saga del JCPOA. Settimana scorsa, alla fine dei colloqui di Doha, mediati dall’UE, il capo dei negoziatori USA, Robert Malley, aveva attribuito alla Repubblica Islamica l’intera responsabilità dello stallo. L’accusa rivolta al governo di Teheran è di avere inserito nel negoziato richieste che nulla avrebbero a che fare con la questione del nucleare. Per questa ragione, ha dedotto Malley, l’Iran non avrebbe ancora preso una decisione se trattare seriamente o meno per arrivare a un accordo.

Il governo americano si riferisce principalmente a due “richieste” avanzate dai negoziatori iraniani: la rimozione dei Guardiani della Rivoluzione dall’elenco delle organizzazioni terroristiche e la garanzia assoluta che, qualunque sia il colore delle prossime amministrazioni USA, l’eventuale nuovo accordo sottoscritto non verrà disconosciuto, come fece Trump nel 2018. Riguardo alla seconda, il problema è piuttosto complicato per Biden. Senza il consenso del Congresso di Washington, la Casa Bianca non è in grado di assicurarsi un trattato vero e proprio. Già Obama, aveva optato per una scorciatoia dopo la firma del JCPOA a Vienna nel 2015 proprio perché se lo avesse sottoposto a un voto del Congresso sarebbe stato bocciato. L’accordo è rimasto così esposto al solo giudizio dell’inquilino di turno della Casa Bianca e, infatti, Trump ha finito per ritirare gli Stati Uniti dal JCPOA esattamente come aveva promesso in campagna elettorale.

Ora, l’Iran intende evitare il ripetersi di questa esperienza, tanto più che si profila una maggioranza del Partito Repubblicano al Congresso USA dopo il voto di metà mandato a novembre e probabilmente il ritorno dello stesso Trump o di un altro repubblicano alla presidenza nel 2024. È evidente che il ritorno in vigore delle condizioni previste dal JCPOA ha implicazioni che vanno valutate sul medio e lungo periodo, soprattutto dal punto di vista economico, e le autorità della Repubblica Islamica intendono ottenere garanzie sufficienti da un governo, come quello americano, notoriamente incapace di mantenere i propri impegni.

Il discorso relativo ai Guardiani della Rivoluzione tocca invece direttamente la questione sollevata dal capo negoziatore americano dopo i colloqui di Doha. Per Washington il fatto che questa organizzazione dello stato iraniano sia sulla lista nera del terrorismo non ha nessuna attinenza con la trattativa sul nucleare. In realtà, a parte l’assurdità di per sé del provvedimento adottato sempre dall’amministrazione Trump, il collegamento al JCPOA è almeno duplice. In primo luogo, la designazione era stata decisa proprio nel quadro dell’offensiva anti-iraniana seguita all’uscita degli Stati Uniti dall’accordo e, inoltre, i “pasdaran” e società ad essi collegate operano in molti settori dell’economia iraniana, così che la loro presenza sulla lista del terrorismo USA potrebbe comportare una limitazione dei benefici economici che Teheran legittimamente si aspetta dal ripristino del JCPOA.

Anche in questo caso ci sono ragioni politiche e strategiche che rendono difficile per Biden una decisione favorevole alla Repubblica Islamica sui Guardiani della Rivoluzione. Una mossa in questo senso provocherebbe una dura reazione dei “falchi” di Washington, compresi quelli del Partito Democratico, con i prevedibili effetti negativi in termini elettorali. Allo stesso tempo, tutt’altro che positiva sarebbe anche la reazione di Israele, dove Biden è oltretutto atteso a breve per la sua prima visita da presidente.

Il tentativo americano di puntare il dito contro l’Iran per il mancato accordo sul JCPOA a più di un anno dall’inizio delle trattative è quindi un modo per rimescolare le carte e liberarsi di responsabilità che sono invece chiarissime. In uno scenario normale, l’amministrazione Biden avrebbe dovuto semplicemente revocare la decisione di Trump del 2018 e tutte le sanzioni imposte da allora, dichiarando il rientro nell’accordo degli Stati Uniti. La Repubblica Islamica aveva da parte sua già fatto sapere che avrebbe in tal caso cessato tutte le attività concernenti il proprio programma nucleare civile in “violazione” dell’accordo, tornando immediatamente a rispettare i vincoli previsti. Le “violazioni”, peraltro, non dovrebbero essere considerate tali, poiché l’abbandono del JCPOA da parte di uno dei firmatari comporta automaticamente la cessazione degli obblighi imposti all’Iran.

Questa settimana, il ministro degli Esteri del Qatar, Sheikh Mohammad bin Abdul Rahman, si è recato in visita a Teheran dove ha incontrato il suo omologo iraniano, Amir Abdollahian, per cercare di rimettere in piedi il negoziato. Il numero uno della diplomazia iraniana ha ribadito la volontà di arrivare a un accordo “giusto, solido e di lunga durata”, per poi sottolineare correttamente che le richieste del suo paese “non sono eccessive”, ma “del tutto coerenti con l’impalcatura del JCPOA”.

La pazienza mostrata dalla Repubblica Islamica non trova il minimo riscontro nel comportamento americano. Basti pensare alle ripetute provocazioni dell’amministrazione Biden di questi mesi, come appunto le sanzioni o, ad esempio, la recente risoluzione di condanna approvata in sede AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e istigata da Israele per la presunta mancata collaborazione da parte dell’Iran sulla questione del ritrovamento di tracce di attività sospette in uno dei suoi siti nucleari.

La disponibilità iraniana è dovuta in larga misura alle cambiate condizioni internazionali negli ultimi anni. L’Iran, pur soffrendo l’assedio economico illegale imposto dagli Stati Uniti, è tutt’altro che isolato e beneficia sempre più delle dinamiche multipolari che hanno il proprio baricentro a oriente, come dimostra la partnership con Cina e Russia e il processo di distensione con i paesi limitrofi promosso dal governo del presidente Raisi. Il rientro nel JCPOA non è quindi più così urgente per l’Iran e le pressioni appaiono perciò soprattutto sugli Stati Uniti, che necessitano del ritorno del petrolio iraniano sul mercato per limitare l’impennata delle quotazioni seguite all’esplosione della crisi russo-ucraina.

Se, infine, fosse necessaria una considerazione sulle basi dell’autorità e della presunta superiorità morale auto-assegnatasi dagli Stati Uniti nel condurre le trattative con l’Iran, basterebbe citare la notizia di questi giorni sulle operazioni delle forze militari americane dispiegate in territorio siriano. La testata on-line libanese The Cradle ha citato fonti locali per rivelare come le truppe di Washington che occupano la Siria nord-orientale stiano tuttora trasportando in modo clandestino oltre il confine iracheno petrolio estratto dal governatorato di Hasakah. Con due convogli, viaggianti sotto scorta di elicotteri americani, soltanto negli ultimi giorni le forze di occupazione hanno mobilitato un centinaio di autocisterne, in collaborazione con le Forze Democratiche Siriane a maggioranza curda.

In sostanza, mentre gli USA sanzionano le esportazioni legittime di petrolio iraniano, continuano a occupare senza alcun fondamento legale il territorio di un paese sovrano, rubando e contrabbandando impunemente le risorse appartenenti al popolo siriano.

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