Con il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia discusso questa settimana, i vertici europei hanno confermato in pieno la traiettoria autolesionistica imboccata su richiesta di Washington a partire dall’inizio delle operazioni militari in Ucraina a fine febbraio. Oltre ad alcune misure oggettivamente difficili da commentare, come le sanzioni nei confronti del patriarca della chiesa ortodossa russa Kirill, ciò che spicca è la pianificazione dell’embargo totale delle importazioni di petrolio da Mosca. Anche in questo caso è direttamente la sicurezza energetica di molti paesi europei a essere minacciata pesantemente, così come le rispettive economie, anche se le resistenze interne all’UE e le difficoltà di natura logistica che si prospettano rendono incerta l’implementazione nel breve e medio periodo del nuovo provvedimento suicida.

 

Il primo ostacolo da superare per il piano geniale annunciato dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, è l’opposizione di Ungheria e Slovacchia, tra i paesi maggiormente dipendenti dal greggio russo. Soprattutto il governo di Budapest ha mostrato in queste settimane una caratteristica introvabile a Berlino, Roma o Varsavia, cioè la difesa degli interessi nazionali. L’Ungheria aveva già minacciato di mettere il veto al pacchetto di nuove sanzioni che, per essere approvato, ha bisogno del voto favorevole di tutti i membri UE.

Affermando apertamente che il piano europeo per rimpiazzare il petrolio russo non è per nulla chiaro, Budapest ha chiesto quanto meno un’esenzione dall’embargo, mentre da Bruxelles sono arrivate indicazioni sulla possibilità che per Ungheria e Slovacchia si possano prevedere tempi più lunghi per l’abbandono del greggio russo. Avvertimenti sui rischi di una “transizione” attuata ufficialmente per penalizzare il Cremlino sono arrivati da più parti in queste settimane, ma l’Europa sembra voler tirare dritto. Della chiarezza delle idee della von der Leyen e della cerchia di burocrati non eletti si è avuta un’altra conferma in un articolo di questa settimana della Reuters, secondo la quale la Commissione europea è intenzionata ad attuare lo stop al petrolio russo entro l’inizio del 2023 “in un modo o nell’altro”.

Non c’è dubbio che l’eventuale chiusura del mercato europeo rappresenterebbe una pesante perdita di entrate per la Russia. Mosca vende al vecchio continente poco meno della metà delle proprie esportazioni di idrocarburi. Le opzioni russe, in prospettiva futura, appaiono tuttavia più favorevoli rispetto a quelle dell’Europa, i cui leader si trovano di fronte sostanzialmente a due problemi. Il primo è la quasi impossibilità di reperire da altri fornitori la stessa quantità di greggio importata finora dalla Russia, soprattutto in tempi brevi. Il secondo è che, se anche ciò dovesse accadere, il processo di sostituzione del petrolio russo risulterebbe più costoso e soggetto a complicazioni di ordine logistico. In entrambi i casi sono abbastanza chiari gli svantaggi per consumatori e imprese europee.

In un’analisi degli scenari energetici prodotti dalla follia europea, l’agenzia di stampa Bloomberg ha scritto mercoledì che, se pure “le esigenze delle raffinerie europee dovessero essere soddisfatte”, ciò avverrebbe “a spese dell’efficienza, a un costo maggiore e con un certo stress della catena dei rifornimenti”. L’Europa dovrà “fare maggiore affidamento sul greggio proveniente dall’altra parte dell’Atlantico o dal canale di Suez”, mentre quello solitamente fornito dai più vicini porti russi verrà ridotto o azzerato. Questi cambiamenti provocheranno un aumento della domanda di petroliere, con conseguente “impennata dei costi di trasporto” per via di tragitti più lunghi da coprire.

L’insensatezza dello scontro con Mosca provocato dall’Occidente e gli effetti negativi, determinati altrettanto assurdamente dal comportamento europeo e americano, sul fronte economico ed energetico sono spiegati con efficacia dall’esempio proposto sempre da Bloomberg circa la realtà che si potrebbe verificare a breve. Nel Canale di Suez potrebbero finire per incrociare le loro traiettorie le petroliere con greggio russo dirottato dall’Europa all’Asia e quelle con a bordo petrolio mediorientale spostato dai mercati asiatici per essere destinato all’Europa.

Intanto, già il solo annuncio di un possibile embargo europeo ha fatto salire significativamente le quotazioni del petrolio. Analisti e “trader” ritengono inoltre che i prezzi resteranno elevati nel prossimo futuro, così da permettere se non altro alla Russia di compensare in parte le entrate perse a causa delle restrizioni imposte dalle sanzioni europee. Mosca ha in ogni caso la possibilità di aumentare massicciamente l’export verso oriente. Cina e India stanno già approfittando di prezzi scontati a cui viene offerto il greggio russo, mentre la costruzione di oleodotti diretti a est continua senza sosta. Nonostante la favola dell’isolamento di Mosca, sono in pratica solo tre i paesi asiatici a essersi allineati alla linea dura di Washington (Giappone, Corea del Sud, Singapore), mentre gli altri non hanno preso posizione e continuano a intrattenere normali rapporti con la Russia.

La pericolosità della scommessa europea era stata rilevata tra gli altri dal segretario generale dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), Mohammed Barkindo, lo scorso mese di aprile. A suo dire, le sanzioni UE potrebbero potenzialmente causare una perdita per il mercato globale di oltre 7 milioni di barili al giorno. Una recente analisi del sito Oilprice.com ha stimato invece in due milioni di barili al giorno la carenza cronica che l’offensiva anti-russa in corso potrebbe determinare.

Le ragioni del deficit di greggio sono molteplici e includono, per quanto riguarda la Russia, lo stop all’attività di alcuni pozzi soprattutto per motivi di carattere finanziario legati alle sanzioni in ambito bancario. In merito agli altri produttori, dagli USA al Medio Oriente, gli ostacoli hanno a che fare con il mancato aumento dell’estrazione anche in questo caso per svariate ragioni. Per i paesi dell’OPEC si tratta ad esempio di una scelta di natura strategica fatta da tempo, legata alla collaborazione proprio con la Russia e sfociata nella formula “OPEC+”.

Il già ricordato articolo di Bloomberg propone infine una riflessione sull’impatto che potrebbe avere l’embargo in discussione in Europa. Gli effetti, scrive l’agenzia americana, saranno diversi a seconda dell’obiettivo, se si vorrà cioè “bloccare le esportazioni russe” o semplicemente smettere di acquistare il petrolio di Mosca. Nel secondo caso, anche Bloomberg ammette che lo stop delle importazioni europee produrrà soltanto un rimescolamento delle rotte commerciali del greggio, con conseguenze trascurabili o comunque gestibili per il Cremlino.

La domanda è ad ogni modo superflua, dal momento che, nella migliore (o peggiore) delle ipotesi l’Europa avrà i mezzi esclusivamente per fare a meno del petrolio russo, non potendo in nessun modo incidere in modo efficace sulle esportazioni energetiche di Mosca su scala globale. Anche l’obiettivo più limitato sarà comunque difficile da raggiungere, come dimostrano le resistenze dei paesi EU maggiormente vincolati al greggio russo e gli ostacoli logistici descritti in precedenza.

Il nocciolo della questione è tuttavia un altro, ovvero che, paradossalmente, se Bruxelles dovesse riuscire a implementare “con successo” l’embargo, a farne le spese non sarà tanto la Russia, quanto gli stessi paesi europei, attesi nell’immediato futuro da serissimi problemi in termini di crescita economica, di competitività e di tensioni sociali.

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