Come annunciato 10 anni fa, quando assunse il ruolo che fu di Fidel, il Generale Raul Castro ha presentato all’ottavo Congresso del Partito Comunista di Cuba le sue dimissioni da ogni incarico dirigente. Le dimissioni di Raul arrivano in una data simbolicamente importante, giacché coincidono con la proclamazione del carattere socialista della Rivoluzione e con la vittoria contro l’invasione mercenaria ordita dalla CIA alla Baia dei Porci di 60 anni fa.

Ricorrenze che ben si attagliano alla storia politica di Raul e persino al tratto personale di un dirigente che è sempre apparso come poco incline all’istrionismo ma dotato di grande convinzione ideologica, notevole equilibrio e assoluta determinazione nel portare a compimento le missioni assegnategli.

 

Con la sua uscita di scena, finisce un’epoca, quella dei Castro, che ha costruito la Cuba socialista procurandole rispetto e ammirazione ad ogni dove del mondo. Ma Raul è stato molto più che il fratello di Fidel: sebbene come tutti e più di tutti devoto al fratello Fidel, Comandante en Jefe della Rivoluzione, di Cuba e del suo popolo ovunque residente, Raul ha brillato di luce propria e lo ha fatto in ogni epoca della storia di questi 63 anni di Revoluciòn ed ha lasciato un segno nella vita dell’isola.

In primo luogo Raul è stato un dirigente rivoluzionario, prima nella Sierra Maestra e poi nella difesa del socialismo cubano. Si è disimpegnato sin dall’inizio nel ruolo di Ministro della Difesa, ma si è caratterizzato anche come severo custode dell’impianto ideologico del socialismo cubano. Raul fu implacabile nella seconda metà degli anni ’90 intervenne con forza impedendo qualunque deriva e respingendo ogni lusinga da parte di chi, in Europa (e in Spagna significativamente) approfittando del periodo especial, tentò in ogni modo di intervenire sull’identità ideologica e sulle ambizioni del suo gruppo dirigente con l’obiettivo di facilitare gli investimenti sull’isola socialista.

Raul fu anche l’artefice di un ampliamento del ruolo delle Forze Armate nel settore economico.

Proprio nei momenti economicamente più difficili, quando la caduta del campo socialista tolse di colpo a Cuba tanto i sussidi dell’Unione Sovietica come l’85% del volume degli scambi commerciali, la capacità di Fidel Castro fu quella di iniziare un processo di prudenti ma progressive aperture nel modello economico senza minimamente intaccare il sistema politico. Una scommessa riuscita anche grazie alla capacità imprenditoriale delle FAR, che si distinsero per efficienza e permisero diverse articolazioni economiche del Paese, tra le quali una sostenibile espansione dell’offerta turistica.

Si è sempre ritenuto che Raul fosse stato incline ad un modello di tipo cinese, ovvero con una forte centralizzazione dello Stato e con un modello di partito unico, ma le caratteristiche di Cuba (80% di area urbana e 20 agricola) mal si associano a quelle cinesi (78% di area agricola e 22% di area urbana); è semmai il Viet-Nam, che con Cuba condivide molti degli assetti strutturali, ad aver ispirato Raul nella scelta del modello di sistema. Raul, infatti, è stato maestro di concretezza senza però nutrire alcun fascino per le virate liberali che tanta sinistra hanno ammaliato.

Quando Fidel decise di passare il timone di Cuba, Raul fu il prescelto. Non si trattò di una gestione dinastica, come il mainstream occidentale ha sostenuto. Chi pensa che il legame di parentela con Fidel avesse giocato un ruolo, conosceva poco Fidel e lo stesso Raul. A far decidere per Raul furono i suoi meriti, acquisiti nella guerriglia prima e nella gestione delle Forze Armate e del Partito poi, che disegnarono un profilo di affidabilità assoluta oltre che di capacità d’interpretazione fedele del volere di Fidel.

Tanto la generazione “storica” dei dirigenti cubani, ovvero quelli che fecero trionfare la Rivoluzione, come quella dei giovani (formata da dirigenti nati con la Rivoluzione già consolidata) riconobbero in Raul un elemento di garanzia per tutte le sensibilità e i differenti approcci che potevano legittimamente manifestarsi. Non una mediazione tra spinte diverse, come erroneamente si è detto e scritto negli organi di stampa occidentali, quanto piuttosto una figura nei confronti della quale tutti provavano un profondo rispetto, gli riconoscevano una assoluta autorevolezza e con cui sentivano di potersi identificare.

Raul è stato un gestore efficiente e preciso del disegno politico di Fidel e, insignito del ruolo più alto dopo il ritiro de fratello, ha dimostrato tutto il suo pragmatismo. Proprio seguendo gli insegnamenti di Fidel, che ha indicato come la flessibilità delle scelte politiche può darsi solo con l’inflessibilità dei principi che la guidano, Raul seppe gestire nel migliore dei modi il passaggio ad una nuova fase dei rapporti con gli Stati Uniti. Anche qui, furono diversi gli analisti in errore, che interpretarono il dialogo tra i due paesi come una disponibilità cubana a rivedere le sue posizioni. Lo scenario di quella normalizzazione si diede invece perché Barak Obama prese atto del fallimento della politica statunitense anacronistica e criminale verso Cuba e non perché Cuba, pur di ottenere una normalizzazione, fosse disposta ad intervenire nel suo impianto sistemico e valoriale.

Nelle precondizioni per un dialogo utile, Cuba pose in chiaro da subito che doveva essere garantito il principio di reciprocità tra i due paesi, così come il rispetto delle diversità e specificità di ordine politico e culturale, ovvero il reciproco ascolto di due sistemi che sono per natura opposti ma che possono riconoscersi e rispettarsi. E a dimostrazione che non si trattava solo di parole, quel processo di normalizzazione iniziò proprio con l’accettazione di una delle proposte di Cuba a più alto valore politico e simbolico: il rilascio dei prigionieri cubani, seppelliti ingiustamente sotto condanne giuridicamente folli (composte da ergastoli doppi e decine di anni di carcere per aver combattuto il terrorismo) in cambio del rilascio di Alan Gross, l’agente della CIA arrestato a L’Avana in piena attività spionistica. Le condanne dei 5 eroi cubani erano state politiche e alla politica USA toccava rimediare. Così avvenne e fu un buon modo per porre concretamente la reciprocità delle condizioni. Fidel aveva giurato che sarebbero tornati in patria e Raul li riportò.

Oggi, quando Miguel Diaz Canel eredita funzioni e ruoli di Raul, le relazioni tra Cuba e gli USA sono nel punto peggiore di questi 63 anni (ad eccezione della crisi dei missili nel ’62). Ma sebbene il percorso di normalizzazione tra i due paesi sia stato seppellito da Donald Trump, quello di ammodernamento dell’isola socialista procede, non senza difficoltà ma procede. I processi produttivi, l’organizzazione del mercato del lavoro, l’ampliamento significativo dei settori destinati all’economia privata, si sposano però indissolubilmente con il carattere pubblico ed universale della sfera dei diritti sociali e questo conferisce autorevolezza e credibilità ad un processo che in molti dallo sguardo appannato si ostinano a leggere come un progressivo cedimento.

Il Congresso ha salutato con commovente affetto l’uscita di scena di Raul, per quanto aver abbandonato il suo ruolo formale non ne impedirà di mettere a disposizione del Paese la sua saggezza, esperienza ed autorevolezza. La nuova direzione del partito, senza la presenza fisica di Fidel e Raul, si muoverà comunque nella direzione dello sviluppo senza rinunciare ai principi che i fratelli Castro hanno indicato durante 63 anni.

L’ottavo Congresso ha deciso di dare ulteriore implementazione al processo riformatore dell’economia ed una maggiore adattabilità ai mutamenti socioeconomici che, come in tutto il mondo, si manifestano anche a Cuba. Difficile poter definire in base alle teorie economiche classiche la sperimentazione in corso; si delinea un modello tutto cubano, calibrato sulle necessità e possibilità del Paese e non importato dalle dottrine altrove pensate ed applicate. Una forma di sperimentazione suscettibile di cambiamenti continui, ma con una bussola che orienta bene. Che pur senza renderli incompatibili, mostra con chiarezza il Nord e il Sud nel disegno di un futuro possibile. Anche se costretti a subire per mancanza di alternative i meccanismi propri di un sistema capitalistico da accettare come inevitabili, lo sforzo è quello di adattarle all’identità cubana, che mantiene l’orizzonte dell’egualitarismo socialista fondato sui diritti universali come obiettivo irrinunciabile.

E’ però evidente come ogni ipotesi di sviluppo di Cuba abbia nella fine del blocco o, comunque, nell’indifferenza verso di esso da parte della comunità internazionale, una leva imprescindibile. Cuba, che pure ha dimostrato anche nella pandemia la sua capacità di superare se stessa e il mondo intero, non può e non deve essere lasciata sola di fronte all’arroganza genocida dell’impero in decadenza.

La nuova amministrazione USA non sembra purtroppo voler ripercorrere il cammino di avvicinamento che Obama volle proporre, piuttosto appare come preoccupata di mantenere una linea di ostilità verso quella che a Washington chiamano “l’asse del male”, ovvero Cuba, Venezuela e Nicaragua, alle quali ora si somma anche la Bolivia. In assenza di un deciso cambio di rotta statunitense, Cuba – che non potrà contare sull’aiuto venezuelano – non ha però nessuna intenzione di flettere le ginocchia.

Il portavoce di Biden, alla notizia delle dimissioni di Raul Castro, ha detto che Washington “segue con assoluto interesse” la situazione cubana. Questo però, lo si sapeva, fin qui niente di nuovo. Sarebbe interessante piuttosto sapere se Biden ha intenzione di svegliarsi dal sonno della ragione che costringe gli USA da 63 anni a sbattere la faccia contro il muro cubano. Oppure se anche lui intende proseguire sulla strada percorsa da chi lo ha preceduto, gli 11 presidenti e 26 direttori della CIA che si sono insediati promettendo di abbattere il socialismo cubano e se ne sono andati a casa con Cuba socialista che li salutava sorridendo.

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