Dopo alcune settimane durante le quali il “dossier” Iran è sembrato passare in secondo piano a Washington, questa settimana e nei giorni scorsi il fuoco incrociato su Teheran è tornato a farsi sentire, in concomitanza con i più recenti sviluppi nella regione mediorientale. L’amministrazione Trump ha di nuovo fatto ricorso all’abusato strumento delle sanzioni, applicando ridicole misure punitive contro esponenti della cerchia della guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, proprio in occasione del quarantesimo anniversario dell’occupazione dell’ambasciata a Teheran all’indomani della rivoluzione del 1979.

 

L’assurdità delle motivazioni per le iniziative del governo di Washington, assieme alla totale assenza di fondamenta legali per le ultime sanzioni, ha portato il segretario al Tesoro USA, Steven Mnuchin, a rilasciare lunedì una dichiarazione al limite del delirante. I destinatari delle sanzioni sono stati cioè definiti co-responsabili di una “vasta gamma di comportamenti maligni”, mentre la mossa della Casa Bianca servirebbe a ridurre le capacità del leader supremo di “implementare la sua agenda di terrore e oppressione”.

A finire nella rete delle sanzioni americane, le quali peraltro non avranno effetti concreti significativi, è, tra gli altri, il numero uno del sistema giudiziario iraniano, Ebrahim Raisi, ritenuto responsabile della repressione delle proteste di piazza seguite alle elezioni presidenziali del 2009.

Inoltre, sulla lista nera USA è finito anche il capo di gabinetto di Khamenei, Mohammad Mohammadi Golpayegani, e uno dei suoi più autorevoli consiglieri, Ali Akbar Velayati, per molti anni ministro degli Esteri e anche per questo ben noto nei circoli diplomatici internazionali. L’accusa contro Velayati è quella di avere svolto un qualche ruolo nell’apertura da parte dell’Iran di linee di credito a favore della Siria di Bashar al-Assad, vale a dire un intervento del tutto legittimo da parte di un paese sovrano per sostenere un alleato sotto assedio.

Il limite del ridicolo è stato infine superato abbondantemente con le sanzioni imposte al figlio dell’ayatollah Khamenei, Mojtaba, preso di mira da un’amministrazione che fa del nepotismo uno dei propri marchi distintivi perché “rappresenta la guida suprema in forma ufficiale pur non essendo mai stato eletto o nominato per una posizione governativa”.

Queste ultime sanzioni hanno il preciso scopo di chiudere ogni possibilità di dialogo con Teheran, visto che colpiscono molti degli uomini più influenti del governo iraniano con l’autorità di decidere gli indirizzi o di gestire la politica estera del paese. Nei mesi scorsi erano stati infatti sanzionati anche il ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, e lo stesso ayatollah Khamenei.

Vista la situazione di estrema ostilità, non è una sorpresa che sempre a inizio settimana le autorità iraniane abbiano annunciato il superamento di ulteriori limiti imposti al proprio programma nucleare dall’accordo di Vienna del 2015 (JCPOA). Il direttore dell’agenzia per l’energia atomica iraniana, Ali Akbar Salehi, ha spiegato che verrà impiegato il doppio delle centrifughe a tecnologia avanzata rispetto al numero fissato dall’accordo. Non solo, i tecnici della Repubblica Islamica stanno lavorando a nuovi modelli di centrifughe, necessarie per l’arricchimento dell’uranio da utilizzare a scopi civili e teoricamente militari, in grado di operare a una velocità dieci volte superiore di quelle previste dal JCPOA.

Un ulteriore passo è stato fatto poi martedì, quando il presidente Rouhani ha fatto sapere che verrà dato il via all’introduzione di gas uranio nelle centrifughe dell’impianto sotterraneo di Fordo, il cui utilizzo era stato sospeso dall’accordo sul nucleare. La decisione è stata definita come la più “provocatoria” finora presa da Teheran, in quanto Fordo ha sempre avuto un particolare valore simbolico nelle complicate trattative sul programma nucleare iraniano.

Le iniziative di Teheran sono state quasi sempre bollate dai media occidentali come violazioni dei termini dell’accordo di Vienna, ormai a un passo dal tracollo definitivo. Anche i governi europei firmatari del JCPOA continuano a rispondere alle decisioni iraniane con appelli allarmati che non tengono in considerazione il quadro generale. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, lunedì ha ad esempio definito “inaccettabili” le violazioni dell’accordo da parte dell’Iran.

La Repubblica Islamica sta in realtà attuando un piano d’azione perfettamente legittimo, dal momento che la responsabilità unica del sostanziale naufragio del JCPOA è dell’amministrazione Trump, uscita unilateralmente dall’accordo nel maggio del 2018. Con gli USA fuori dall’intesa e tornati ad applicare pesanti sanzioni contro l’Iran, il governo di Teheran non gode in pratica più di nessun vantaggio nel rispettare le limitazioni al suo programma nucleare e ha dunque piena facoltà di muoversi al di fuori di ogni vincolo stabilito a Vienna nel 2015.

L’obiettivo per il momento sembra essere comunque quello di convincere Francia, Germania e Gran Bretagna a concretizzare le promesse di creare un sistema che permetta all’Iran di continuare a esportare petrolio e, più in generale, a mantenere in vita un’ipotesi di soluzione diplomatica anche allo scontro con Washington. Secondo gli osservatori, infatti, praticamente tutte le iniziative dell’Iran di questi mesi in ambito nucleare sarebbero facilmente reversibili nel caso fosse raggiunto un nuovo accordo multilaterale.

Le prospettive al momento non sono tuttavia incoraggianti. Ancora qualche giorno fa, l’ayatollah Khamenei ha ribadito l’intenzione del suo paese di rifiutare qualsiasi negoziato con gli Stati Uniti, poiché da Washington non arrivano né arriveranno segnali di distensione o concessioni. Nel mese di settembre sembrava esserci qualche spazio per un possibile dialogo, quando era emersa addirittura l’ipotesi di un faccia a faccia tra Trump e il presidente iraniano Rouhani a margine dell’assemblea generale delle Nazioni Unite. La porta della diplomazia si era però chiusa in fretta e anche la mediazione tentata dal presidente francese Macron non ha dato alcun frutto.

I rapporti tra l’Occidente e l’Iran sono destinati così a rimanere tesi anche per il prossimo futuro, soprattutto dopo l’esplosione di massicce manifestazioni di protesta in Libano e in Iraq, due paesi nei quali Teheran ha forti interessi e una profonda influenza. Le dimostrazioni, che hanno assunto un carattere violento in particolare in Iraq, appaiono più che legittime se si considerano le condizioni di vita della maggior parte della popolazione di entrambi i paesi e il livello di corruzione delle rispettive élite politiche.

Le proteste sono state però subito strumentalizzate da media e governi occidentali. Il tentativo in atto consiste soprattutto nel caratterizzare l’esplosione del malcontento popolare in una sorta di rivolta contro la presunta invadenza dell’Iran in Libano e in Iraq o, quanto meno, contro quelle forze domestiche legate alla Repubblica Islamica.

I gravissimi problemi di questi due paesi oggi nel caos sono piuttosto da collegare al passato recente, segnato, per quanto riguarda l’Iraq, da un’invasione americana che ha distrutto letteralmente l’intera società e imposto divisioni settarie codificate nelle strutture dello stato e nella spartizione del potere.

Sul fronte libanese, invece, è il passato coloniale francese ad avere stabilito anche qui divisioni lungo linee settarie, mentre i problemi economici e sociali sono da ricondurre alle politiche neoliberiste e clientelari implementate in larga misura dopo la guerra civile da una classe politica appoggiata dall’Occidente. Se mai, il principale referente dell’Iran in Libano, ovvero Hezbollah, oltre a garantire la sicurezza e l’indipendenza del paese, ha contribuito in maniera importante negli ultimi decenni ad alleviare i livelli di povertà e di esclusione sociale oggi alla base delle manifestazioni di piazza.

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