di Carlo Benedetti


MOSCA. La stampa, qui, le considera “Vulcani fumanti”; inviati speciali ed analisti le definiscono come aree dove si sviluppa una geopolitica del caos; gli autori di reportage e di guide turistiche parlano di regioni affascinanti e drammatiche. Ma la diplomazia si esprime in termini un pò più concreti affermando che si è in presenza di “Repubbliche non riconosciute”. E mentre la battaglia relativa alle definizioni va avanti, la realtà quotidiana supera ogni previsione, proprio perchè nella Georgia post-sovietica esistono ora regioni - Ossetia del sud, Abchasia ed Adzarja - dove soffia forte il vento della rivolta e dell’autonomia. Il distacco da Tbilisi si fa sempre più reale. Per Igor Ghiorgadze, capo dell’opposizione e attualmente alla macchia, tutto può sfociare in una nuova rivoluzione, anche per il fatto che appena il 12 per cento della popolazione appoggia il presidente Saakasvili. E le zone dove vivono azerbajgiani e armeni sono già sul piede di guerra contro il potere di Tbilisi. Dissensi anche in quelle regioni occidentali che prima appoggiavano la presidenza. Ed ora risulta che solo il vertice militare e circa 3000 funzionari statali sono dalla parte di Saakasvili.
Situazione a rischio, quindi, che non va sottovalutata e che in questi giorni torna a gettare l’allarme sia nella capitale georgiana che in quella russa. Con i media del Cremlino che titolano: “La Georgia si prepara alla guerra mentre gli altri si preparano alla libertà” e con i fatti politici che si manifestano in forme e in luoghi inusuali, rivelando anche l’implacabile sedimentarsi dell’illegalità. Il Caucaso resta così un focolaio con le realtà nazionali che si rifiutano di seguire il governo di Tbilisi dominato dalla figura del presidente Saakasvili (il quale, secondo Ghiorgadze, sarebbe un agente dell’intelligence degli Usa) che respinge - in chiave antirussa - ogni posizione autonoma dell’Ossetia, dell’Abchasia e dell’Adzarja. E la situazione generale si aggrava in seguito alle recentissime dichiarazioni georgiane di netta ostilità nei confronti della CSI (la Comunità di Stati Indipendenti).

Tutto avviene mentre la Duma della Russia si occupa del referendum sull’indipendenza dell’Ossetia del Sud e dell’appello del parlamento dell’Abchasia con la richiesta dell’indipendenza. La risposta che arriva dal Caucaso è però netta: le forze del nazionalismo georgiano - quelle che si ritrovano nel “Fronte democratico” - chiedono che la Georgia lasci la Csi nel giro di due mesi sostenendo che la Comunità è dominata dalla Russia di Putin e rappresenta sempre più il tentativo di ricostruire l’Urss. “Noi - dichiara in proposito il leader del “Fronte” David Zurabisvili - siamo stati i promotori del crollo dell’Urss e dobbiamo essere noi a sancire la fine definitiva dell’Unione Sovietica. Di conseguenza non dobbiamo restare sotto la protezione russa. La nostra terra non deve essere considerata come sfera d’influenza del Cremlino. Ecco perchè dobbiamo andarcene al più presto. E la nostra uscita dalla CSI sarà la dimostrazione della nostra totale indipendenza...”. Ma queste affermazioni risuonano proprio nel momento in cui sono forti le spinte filo-atlantiche e mentre si fa sempre più evidente la presenza nel Paese di consiglieri statunitensi: politici, economici e militari. In pratica si può sostenere che la Georgia sta mostrando l’intenzione di aggiungersi agli stati americani...

Intanto Mosca, pur ribadendo ufficialmente di restare neutrale dinanzi ai fatti che sconvolgono le regioni georgiane, fa trapelare le sue simpatie ed antipatie. Ed è evidente che i russi sono dalla parte di quelle entità caucasiche (russe quanto a radici storiche, culturali e religiose) che ritengono di essere oppresse dal regime di Tbilisi e di guardare, di conseguenza, alla Russia come “terra promessa”. Sorgono così i problemi del disagio storico ed esistenziale e si impongono le idee relative alla necessità di riscrivere la mappa del Caucaso dove si agitano divisioni sociali e politiche. Con il regime di Tbilisi che, per la sua politica antirussa, trova pieno appoggio a Washington e a Tel Aviv. E proprio recentemente un alto esponente del segretariato Usa è giunto in Georgia dichiarando che l’amministrazione statunitense sta attuando “un esperimento nel Caucaso” e che l’esperimento, ora, “è pienamente riuscito”...

OSSETIA DEL SUD.
Il Paese aspira all'unione con quell'Ossezia del Nord che fa parte integrante della Russia. La regione - ora repubblica - fu coinvolta nel turbine nazionalista che investì la Georgia alla fine degli anni Ottanta ed ora si è dotata di un suo esercito con 4000 soldati e 9000 uomini della riserva. Gli armamenti sono tutti di produzione sovietica e sono, praticamente, i resti delle basi che l’Urss aveva in questa zona. In particolare il governo di Chinvali conta su 150 mezzi corazzati leggeri e 20 carri armati pesanti del tipo “T-72”. Le truppe sono da mesi in stato di allerta.

ABCHASIA. In questa regione - che si chiama “terra dell’anima” e che si trova nella punta nord della Georgia confinando col mar Nero e con la Russia - si è sviluppato un fortissimo movimento in favore della Russia a partire dal 1991 e, quindi, di netta opposizione nei confronti della stessa Georgia dopo la separazione di fatto avvenuta nel 1994. Eppure gli abchasi costituiscono, una “doppia minoranza”: sono minoritari non solo nella Georgia, ma anche all’interno della loro stessa repubblica. Nel 1990, infatti, rappresentavano soltanto il 17% della popolazione per un totale di 90 mila persone. Ma nonostante queste particolarità locali, di ordine storico e nazionale, la tendenza verso la Russia è più forte che mai. E proprio in questi ultimi giorni si sono registrate, nella capitale locale Suchumi, numerose manifestazioni che hanno avuto come tema centrale quello della richiesta di “reale separazione” dalla Georgia. La piazza ha poi trovato il pieno appoggio delle isituzioni. E così la situazione rischia sempre più di precipitare e potrebbe assumere anche aspetti militari. L’Abchasia, infatti, pur avendo una popolazione di circa 300mila abitanti, si è già dotata di strutture statali repubblicane completamente autonome da Tbilisi. Ha un suo governo, un parlamento e un presidente. Ma, sopratutto, ha un suo esercito basato sulle vecchie strutture sovietiche restate nella regione dopo il crollo dell’Urss. Al comando di Suchumi c’è un piccolo esercito di 6000 soldati (vanno aggiunti 20.000 uomini della riserva) dislocati in tutto il territorio e dotati di 85 mezzi corazzati leggeri e 50 carri armati pesanti del tipo “T-72” . C’è anche piccola flotta con 5 corvette guardiacoste. E non manca l’aviazione militare con un “Mig-21”, due aerei da combattimento “Su-25” e una decina di “Mi-8”, “Jak-52” e “An-2”.

ADZARJA. Questa repubblica autonoma (la capitale è Bitumi, che oltre al porto e alla base russa ospita un terminal in cui affluisce greggio azero e kazako) ha registrato in passato numerose situazioni critiche nel quadro dei rapporti con Tbilisi. Nel 2004 fu il presidente georgiano Saakasvili ad ordinare il blocco economico nei confronti della Repubblica e il presidente locale Aslan Abashidze (vero “padre-padrone” detentore dell’intero potere politico, economico, finanziario e militar-poliziesco) ordinò lo stato di allerta mobilitando le truppe locali lungo la frontiera. Crisi che si risolse con la cacciata di Abashidze e con il governo di Tbilisi che riuscì a domare le proteste degli indipendentisti attuando anche una “invasione” strisciante con nuovi dirigenti inviati da Tbilisi e, quindi, al servizio di Saakasvili. Ma la situazione resta sempre complessa e per la Georgia anche questo fronte del sud, proprio accanto alla Turchia, è considerato “caldo”.

Per ora, comunque, Mosca si trova a fare i conti con la questione più urgente. Una scissione della Georgia dalla Csi (che non è una ipotesi troppo remota) porterebbe a divisioni sociali e politiche finora sconosciute. Tenendo conto soprattutto del fatto che oggi l’aiuto degli Usa al governo di Tbilisi si calcola su un miliardo e mezzo di dollari all’anno. Questo permette al Paese di sopravvivere mentre tutto è stato privatizzato. Nelle mani dello stato restano le montagne e i fiumi. E di conseguenza la domanda che circola a Mosca è questa: come scegliere tra la CSI e la Georgia? Tutto come in una partita di scacchi, quando un’azione è necessaria ma si sa che qualsiasi azione conduce alla sconfitta. Proprio perché lo spazio postsovietico è ancora in preda alle convulsioni di una troppo rapida e imprevista disgregazione dell’Urss.

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