di Michele Paris

Le frizioni tra Stati Uniti e Filippine, che animano il rapporto tra i due alleati da un paio di mesi a questa parte, sono esplose lunedì dopo che il neo-presidente dell’arcipelago del sud-est asiatico, Rodrigo Duterte, ha rivolto un “invito” a dir poco esplicito a Obama a non immischiarsi nelle drammatiche vicende interne del suo paese. Il clamoroso scontro sta impensierendo non poco il governo americano ed è il risultato del processo di revisione delle priorità strategiche filippine in corso a Manila dopo la fine della presidenza del fedelissimo di Washington, Benigno Aquino.

In una conferenza stampa alla vigilia della partenza per il vertice dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) in Laos, a Duterte è stato chiesto come avrebbe risposto a Obama se il presidente americano, nel corso di un vertice bilaterale che avrebbe dovuto tenersi il giorno successivo, avesse sollevato la questione degli assassini extra-giudiziari di presunti criminali nelle Filippine. A partire dall’insediamento di Duterte a inizio luglio, più di 2 mila persone sono state uccise sommariamente dalla polizia o da sicari nel quadro di una sorta di crociata anti-crimine promossa dallo stesso neo-presidente.

Il governo USA aveva lasciato intendere che Obama avrebbe appunto chiesto spiegazioni sulla strage in atto al presidente filippino durante l’incontro previsto in Laos. Duterte ha risposto alla domanda del giornalista, spiegando di non essere un “burattino degli Stati Uniti”, ma il “presidente di un paese sovrano”, dando sostanzialmente a Obama del “figlio di p…”.

Duterte ha chiesto anche le scuse del presidente USA per i 600 mila filippini caduti nella guerra filippino-americana all’inizio del secolo scorso, mentre ha collegato i problemi sociali e di criminalità del suo paese proprio all’eredità del periodo coloniale statunitense.

Che la campagna di assassini sommari che stanno conducendo le forze di sicurezza nelle Filippine con la benedizione del presidente Duterte sia profondamente anti-democratica e di stampo fascista è fuori discussione. Tuttavia, i crimini che ha commesso in poco più di due mesi la nuova amministrazione filippina sono ben poca cosa rispetto a quelli che hanno visto protagonisti gli Stati Uniti nella sola era di Obama.

Soprattutto, gli scrupoli di quest’ultimo, che hanno convinto la delegazione americana in Asia a cancellare l’incontro con Duterte, non hanno niente a che vedere con i diritti umani e democratici della popolazione filippina. Piuttosto, le critiche sia pure misurate rivolte a Duterte sono legate alla crescente impazienza nei confronti del presidente di un paese alleato che continua a esitare nell’allinearsi agli interessi strategici degli Stati Uniti.

Nelle intenzioni americane, Duterte avrebbe dovuto utilizzare tempestivamente la recente sentenza sfavorevole alla Cina, emessa dal Tribunale Arbitrale Permanente de L’Aja sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale, per aumentare le pressioni su Pechino. Al contrario, il presidente filippino ha finora tenuto una condotta prudente su questo fronte, cercando anzi di attenuare le tensioni e di promuovere le relazioni commerciali con il vicino cinese.

Questo atteggiamento ha indubbiamente irritato l’amministrazione Obama, la quale, seguendo un copione ben collaudato, ha iniziato a esprimere preoccupazione per la situazione dei diritti umani nelle Filippine, nonostante all’inizio del mandato di Duterte avesse espresso pieno appoggio alla lotta al crimine e al narco-traffico lanciata dal nuovo governo.

Agli insulti di Duterte, il presidente americano ha comunque reagito in maniera contenuta, almeno a livello pubblico. Obama si è limitato a definire “pittoresco” il collega filippino, per poi precisare che il suo staff è stato incaricato di valutare i modi e i tempi per una “conversazione costruttiva” con Duterte. Infine, Obama non ha mancato di mandare un avvertimento all’alleato, ricordando che la questione delle procedure democratiche, relativamente all’operato della polizia filippina, “sarà sollevata” in un eventuale faccia a faccia nel prossimo futuro.

L’apparente pacatezza della risposta dell’inquilino della Casa Bianca non dipende solo dalla consapevolezza che il suo ultimo mandato sta per scadere e che anche la partnership con le Filippine dovrà essere gestita dal suo successore. Soprattutto, l’amministrazione Obama sembra ritenere che ci sia ancora spazio per imbarcare Rodrigo Duterte nel progetto strategico americano in Asia orientale, diretto al contenimento della Cina con pressioni diplomatiche e militari.

Duterte, da parte sua, ha infatti operato una parziale marcia indietro martedì, quando si è scusato con Obama per le parole pronunciate il giorno prima. Duterte ha poi assicurato di non avere alcuna intenzione di volersi confrontare con “il più potente presidente del pianeta”.

In generale, i messaggi provenienti da Manila in questi mesi sono stati spesso ambigui. Alle prese di posizione pubbliche di Duterte contro gli Stati Uniti e alle iniziative per favorire la distensione dei rapporti con la Cina, il governo filippino ha alternato dichiarazioni ostili nei confronti di Pechino.

In questo gioco delle parti, è stato in particolare il ministro degli Esteri, Perfecto Yasay, a prendere frequentemente le parti degli Stati Uniti. Nei giorni scorsi, ad esempio, il capo della diplomazia filippina aveva convocato l’ambasciatore cinese a Manila per chiedere spiegazioni sulla presenza di un’imbarcazione della guardia costiera di Pechino nelle acque contese dell’atollo di Scarborough, nel Mar Cinese Meridionale.

Duterte, da parte sua, ha espresso il proprio appoggio al discusso trattato, firmato dalla precedente amministrazione Aquino, che consente alle forze armate USA di tornare a occupare alcune basi militari in territorio filippino.

Gli Stati Uniti temono in ogni caso che anche le Filippine possano sfuggire al controllo americano sotto la spinta di interessi economici che pendono decisamente in favore della Cina. Pechino ha d’altra parte già offerto ingenti progetti di investimento al paese-arcipelago, evidentemente legati all’ammorbidimento delle posizioni di Manila sulla contese territoriali alimentate invece da Washington.

Già i prossimi mesi chiariranno forse le intenzioni del nuovo governo filippino, con il presidente Duterte che, dopo avere nominato uno dei suoi predecessori, Fidel Ramos, a inviato speciale per i negoziati con Pechino, si recherà in visita ufficiale in Cina prima della fine dell’anno.

Se l’impegno americano in Asia orientale in funzione anti-cinese appare massimo, i risultati incassati in questi ultimi anni non sembrano delineare un’espansione significativa dell’influenza degli Stati Uniti. Anzi, numerose circostanze indicano un inesorabile indebolimento della posizione di Washington e il venir meno della capacità americana di indirizzare gli eventi secondo i propri interessi.

Significativo in questo senso è ad esempio il tentativo, frustrato da anni, di inserire in un comunicato ufficiale dell’ASEAN una qualche dichiarazione che punti il dito contro la Cina nelle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale. La stessa ratifica dell’impopolare trattato di libero scambio TPP (Partnership Trans Pacifica) tra una dozzina di paesi asiatici e del continente americano continua inoltre a essere bloccata dal Congresso USA.

L’eventuale naufragio di un trattato che è costato enormi sforzi diplomatici e parecchio capitale politico a molti governi, a cominciare da quello dell’alleato giapponese, rischia di dare un colpo letale alla residua credibilità degli Stati Uniti in Asia.

Il fallimento del TPP aprirebbe ulteriormente la strada alle iniziative di integrazione continentale promosse dalla Cina e già in grado di riscuotere un vasto successo, lasciando gli Stati Uniti a contare ancor più sulla dimensione militare per mantenere in vita quel che resta del miraggio di un mondo unipolare sotto il controllo di Washington.

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