di Michele Paris

L’incapacità di tradurre in azioni concrete i propositi dichiarati dai più importanti capi di stato e di governo, per risolvere i problemi economici e non solo che affiggono il pianeta, sembra avere segnato anche il summit del gruppo dei G-20, conclusosi nella giornata di lunedì a Hangzhou, in Cina. A prevalere sono state ancora una volta rivalità che appaiono sempre più accentuate dal persistere un po’ ovunque di livelli di crescita economica modesti, se non del tutto inesistenti.

Degli inviti fatti dal presidente cinese, Xi Jinping, nel suo discorso di apertura del summit a focalizzare l’attenzione sulla “crescita” e a respingere le tentazioni protezionistiche è rimasto ben poco al termine dei lavori. Uno dei temi più caldi dell’incontro è stato l’eccesso di capacità dell’industria dell’acciaio cinese, la quale sta letteralmente inondando il mercato mondiale e provocando la chiusura di molti impianti in Occidente.

Della questione ne hanno parlato Xi e il presidente americano Obama in un faccia a faccia a margine del vertice. La posizione più dura nei confronti di Pechino l’ha assunta però l’Unione Europea, con il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, che ha sollecitato il governo cinese a intervenire e ad accettare un meccanismo condiviso che consenta un monitoraggio internazionale sulle proprie acciaierie.

Stati Uniti, UE e Giappone avevano addirittura proposto che quest’ultimo compito fosse assegnato all’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico), cioè un organo di cui la Cina non fa nemmeno parte. L’ovvia opposizione di Pechino ha portato allo stralcio della proposta, anche se un riferimento più attenuato al problema della sovracapacità dell’industria dell’acciaio della seconda economia del pianeta è comunque finito nel comunicato finale dei G-20.

La disputa si è incrociata con la decisione che l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) dovrà prendere a breve per assegnare o meno a quella cinese lo status di “economia di mercato”, cosa che, tra l’altro, renderebbe più difficile agli altri paesi adottare ritorsioni contro le politiche commerciali di Pechino. La questione, in maniera più o meno esplicita, è stata indubbiamente al centro delle discussioni dei giorni scorsi, collegandosi agli inviti rivolti ai leader cinesi ad accelerare sulle “riforme” di liberalizzazione dell’economia.

Più in generale, l’inconsistenza dei propositi dei governi presenti a Hangzhou è facilmente riscontrabile se si pensa a quanto accaduto dopo l’esplosione della crisi nel 2008. In seguito al tracollo finanziario di quell’anno, i summit dei G-20 che seguirono furono dominati dalle promesse di intraprendere azioni coordinate per far ripartire l’economia globale, evitando nel contempo le politiche protezionistiche che, dopo la Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso, avevano inasprito le rivalità globali fino a contribuire allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Gli scenari osservabili a otto anni di distanza indicano invece un’evoluzione diametralmente opposta. Un recente rapporto dell’OMC ha infatti evidenziato come nel mese di giugno le “restrizioni” al libero commercio nei paesi membri abbiano fatto segnare il livello più elevato dall’inizio della crisi.

L’inadeguatezza del G-20 a far fronte ai problemi del pianeta è risultata chiara dalla stessa quantità di questioni citate nel comunicato finale emesso al termine del vertice cinese. Il documento finale è stato ironicamente definito una sorta di “albero di Natale” da un diplomatico europeo citato dal Wall Street Journal, nel quale il moltiplicarsi dei piani di intervento globale - dall’emigrazione al terrorismo, dall’energia alla diffusione del virus Zika - lascia l’impressione di un organismo sopraffatto dagli eventi e fiaccato dalle spinte nazionalistiche che dominano la maggior parte dei paesi che lo compongono.

A ben vedere, nella metropoli cinese che ha ospitato il G-20 si è avuta anche la conferma del formarsi di un blocco economico e, in misura decisamente minore, strategico che gravita attorno a Cina e Russia o, per meglio dire, ai cosiddetti BRICS, e che si propone come alternativa all’unilateralismo statunitense. Il dato più significativo su questo fronte, ed emerso in parte anche a Hangzhou, sembra essere la possibile attrazione in questa orbita anche della Turchia, ovvero uno dei membri cruciali della NATO.

Questa evoluzione determina però essa stessa la destabilizzazione delle relazioni internazionali consolidate, già di per sé complicate dagli eventi di questi anni. Obama, nel suo incontro con il presidente cinese, ha ad esempio criticato la condotta di Pechino nelle dispute marittime e territoriali del Mar Cinese Meridionale. Washington ha ribadito la propria intenzione di contrastare la Cina su questo fronte e, indirettamente, di continuare ad alimentare gli scontri tra Pechino e gli altri paesi della regione.

Le tensioni generate dal riorientamento strategico americano in Asia orientale sono alla base anche delle frizioni tra Cina e Australia, ugualmente emerse al G-20. Pechino ha in particolare criticato il governo di Canberra, virtualmente allineato agli interessi strategici dell’alleato americano, per le iniziative che hanno fatto naufragare alcune acquisizioni di grandi compagnie australiane da parte del capitale cinese.

Le divisioni e i conflitti sono tuttavia sempre più trasversali e riguardano anche paesi alleati. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (“Brexit”) è stato un tema tra i più discussi al G-20 e i tentativi del neo-premier Conservatore, Theresa May, di minimizzare gli effetti negativi del referendum di giugno sono stati almeno in parte frustrati proprio da Obama, il quale ha confermato che le priorità di Washington dopo la Brexit non coincidono con quelle di Londra.

Già alla vigilia del G-20, peraltro, si aveva avuto un assaggio delle forze centrifughe in atto su scala globale e che gli USA faticano a tenere sotto controllo. A Vladivostok, il primo ministro giapponese, Shinzo Abe, aveva incontrato Putin nel corso di un forum sull’economia, manifestando al presidente russo la propria disponibilità a siglare un trattato di pace per mettere fine al gelo che prevale tra i due paesi fin dalla fine del secondo conflitto mondiale per via di una disputa territoriale. L’iniziativa del premier nipponico ha di fatto spaccato il fronte anti-russo che caratterizza il G-7 fin dall’esplosione della crisi in Ucraina.

Il suggello sull’ennesimo G-20 evanescente è arrivato anche dal mancato accordo su una possibile tregua in Siria, nonostante l’atteso faccia a faccia tra Obama e Putin in Cina. Al di là delle dichiarazioni pubbliche, l’impossibilità a raggiungere un’intesa tra le due potenze con i maggiori interessi nel paese mediorientale in guerra è dovuto in sostanza al rifiuto da parte americana di rinunciare in maniera inequivocabile a sostenere o, quanto meno, a difendere gruppi “ribelli” legati ad al-Qaeda che si battono contro il regime di Assad.

Le differenze tra Mosca e Washington sulla Siria sono ad ogni modo sostanziali, mentre l’amministrazione Obama ha visto fallire completamente la propria strategia in questo conflitto, tanto che la maggior parte degli osservatori sembra condividere l’opinione che il presidente intenda soltanto prendere tempo e passare la questione al suo successore di qui a pochi mesi.

Come se non fossero stati sufficienti i motivi di scontro descritti, sul G-20 di Hangzhou sono piombati lunedì infine tre missili balistici, lanciati dal regime stalinista nordcoreano di Kim Jong-un. Gli ordigni sono precipitati in mare al largo della Corea del Nord e hanno rappresentato l’ennesimo messaggio di Pyongyang alle potenze regionali e agli Stati Uniti.

Poche ore prima del lancio, i presidenti di Cina e Corea del Sud, rispettivamente Xi Jinping e Park Geun-hye, avevano discusso della crisi perenne nella penisola di Corea. Pechino, soprattutto, aveva ricordato al governo di Seoul la propria opposizione alla decisione di ospitare il sistema americano di difesa missilistico THAAD (“Difesa d’area terminale ad alta quota”), ritenuto correttamente una minaccia alla sicurezza cinese, malgrado le rassicurazioni che esso sia rivolto esclusivamente alla Corea del Nord.

L’installazione del THAAD è una priorità del governo USA nell’ambito della propria strategia anti-cinese e, come si è visto nei giorni scorsi, ha aggiunto un nuovo motivo di scontro in Asia orientale, complicando ulteriormente gli sforzi di pace che coinvolgono la Nordcorea e avvelenando i rapporti diplomatici tra due paesi, come Cina e Corea del Sud, che hanno ormai costruito solidissimi legami sul fronte economico e commerciale.

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