di Lorenzo Zamponi

Un “charnego” presidente e un sesto partito non catalanista. Queste le due grosse novità del nuovo Parlamento della Generalitat eletto il 1 novembre. Sarà il socialista José Montilla, nato in Andalusia (“charnego” è un termine spregiativo per identificare i non catalani, simile all’italiano“terrone”), a guidare il secondo governo tripartito, essendo stato ufficialmente eletto dal “Parlament” venerdì 24 novembre. “Questa è la mia patria, signore e signori deputati – ha dichiarato Montilla nel suo discorso di candidatura – io non posso parlare della Catalogna dei miei antenati. Però è la Catalogna dei miei figli. E voglio che sia molto migliore ancora quella dei miei nipoti.” Tra martedì e mercoledì, dopo il complesso iter che coinvolge autorità locali, nazionali e monarchia, sarà formato il Govern destinato ad amministrare la regione più moderna e irrequieta della Spagna della cosiddetta seconda transizione. Le elezioni del 1 novembre non erano in ogni caso state il terremoto che molti aspettavano. “CiU gana pero no gobernará” titolava lo speciale de El Pais, e l'apertura dello stesso quotidiano era “Mas gana en Cataluña sin fuerza suficiente para impedir otro tripartito”. Il tripartito in questione è quello formato dal Partit dels Socialistes de CatalunyaEsquerra Republicana de Catalunya (sinistra indipendentista) e da Iniciativa por Catalunya Verds de Catalunya - Esquerra Unida i Alternativa (coalizione che raggruppa l'iperframmentata sinistra radicale).
Si tratta della stessa coalizione che, grazie al cosiddetto Pacto del Tinell, andò al governo dopo le precedenti elezioni nel 2003, mettendo fine all'egemonia della coalizione nazionalista di centrodestra Convergencia i Uniò, il cui leader storico Jordi Pujol aveva guidato la “Generalitat” (autogoverno catalano) dalle prime elezioni democratiche del 1980.

Nella vittoria del socialista Pasqual Maragall del 2003 molti hanno letto un'anticipazione del progetto di Zapatero. Del resto proprio gli indipendentisti di ERC e quello che si può considerare il referente nazionale di ICV-EUiA, la coalizione Izquierda Unida, sono le forze politiche che col loro appoggio esterno nel parlamento di Madrid garantiscono la stabilità dell'esecutivo socialista. Ma le connessioni tra Barcellona e Madrid sono più profonde: il primo tripartito catalano costituiva infatti un'anticipazione del progetto di Zapatero sul piano politico e ideologico prima che su quello delle alleanze. Il governo di Maragall si caratterizzava infatti come un esecutivo “catalanista e di progresso”. L'ambizioso tentativo era proprio quello di unire la politica progressista dei socialisti e della sinistra radicale al catalanismo di ERC.

Si trattò probabilmente di una scelta obbligata: 23 anni di pujolismo hanno plasmato la Catalogna più di quanto fossero riusciti a fare 40 anni di franchismo. La crescita economica accelerata, in netto anticipo sul resto del paese, e la forte spinta dei governi di CiU sui programmi di valorizzazione della lingua e della cultura catalani, uniti a una tradizione autonomista le cui radici vanno ben oltre la politica contemporanea, hanno reso il catalanismo un elemento strutturale nel campo politico locale. Quando un intellettuale come Manuel Vázquez Montalbán si definiva “pujolista di sinistra”, non si trattava del semplice vezzo di un amante del paradosso, ma della constatazione di un'egemonia di fatto.
L'intuizione socialista fu quella di intravedere uno spazio nuovo tra le opzioni politiche presenti storicamente: il nazionalismo moderato di CiU, vero e proprio partito territoriale in stile Südtiroler Volkspartei, pronto a rivendicare autonomia in ogni campo ma anche a stringere patti sia col socialista González sia col popolare Aznar; il centralismo del Partido Popular, baluardo della fedeltà a Madrid, e per questo destinato all'irrilevanza; l'indipendentismo arrembante di ERC e del suo popolare e discusso leader Josep Lluís Carod-Rovira, che mescola anticapitalismo di ultrasinistra e catalanismo assoluto e critica da un punto di vista radicale il pujolismo, logorato da decenni di potere; il federalismo solidale della sinistra radicale, formula con cui le differenti coalizioni che fanno capo a questo mondo tentano di risolvere la questione territoriale per concentrare l'attenzione sulle tematiche sociali e internazionali ad esse più care.

La scelta di Maragall, e poi di Zapatero, è quella del “talante” (letteralmente “atteggiamento”), vero e proprio tormentone della comunicazione socialista. Si tratta del tentativo da parte dei socialisti di porsi come perno di un dialogo ampio e partecipato tra le diverse forze sociali e politiche, per ristrutturare la Spagna delle autonomie costruita a cavallo del 1980 e risolvere una volta per tutte la questione territoriale.
Una scommessa azzardata ma potenzialmente di successo: è stata proprio la scelta di abbandonare il PP alla solitudine centralista e proporsi come interlocutore privilegiato dei nazionalisti a permettere ai socialisti di andare al governo nel 2003 in Catalogna, nel 2004 a livello nazionale e nel 2005 in Galizia, dove l'alleanza tra Partido dos Socialistas de Galicia e Bloque Nacionalista Galero riuscì a mandare in pensione l'ex ministro franchista Manuel Fraga, presidente dal 1989.

Non va dimenticato che in Spagna tutte le questioni territoriali non sono altro che metafore della questione territoriale per eccellenza, quella basca. E la riforma dello Statuto catalano messa in programma del tripartito era da tutti considerata come la prova generale di una riforma dell'autonomia basca in grado di garantire la pace nella regione e la fine del terrorismo dell'ETA.
Fu proprio “l'Estatut” a mettere in crisi il governo Maragall: la proposta elaborata dal parlamento catalano vedeva concordi tutte le forze politiche locali tranne il PP, sempre più isolato nella sua solitaria opposizione al catalanismo dominante. Seguirono lunghe trattative con Madrid, che sotto l'apparenza del dibattito sul preambolo e sulla definizione da dare alla Catalogna, se “nazionalità”, come prevede la Costituzione, “nazione”, come chiedevano gli indipendentisti, o “comunità nazionale”, come suggeriva la mediazione socialista, nascondevano questioni molto più concrete, dalla gestione degli aeroporti a quella delle reti di comunicazione, oltre che ovviamente il sistema tributario e la ripartizione dei finanziamenti tra le diverse comunità.

Il testo finale fu sottoposto a referendum nel giugno scorso, come previsto dal “Pacto del Tinell”: ad opporsi alla proposta non furono solo i popolari, ma anche ERC, critica contro l'impianto non abbastanza autonomista della norma. Un atteggiamento che spinse Maragall a licenziare gli assessori di ERC e convocare nuove elezioni per il 1 novembre.
L'Estatut passò col 73,90%, confermando l'ampio appoggio di cui godeva il testo, ma con un'affluenza alle urne di appena il 49,42%, primo segnale di disaffezione dei catalani alla questione territoriale. Alle elezioni i socialisti si sono presentati con un nuovo candidato, l'ex ministro dell'industria José Montilla, paradossalmente più impegnato durante la campagna elettorale a giustificarsi per le sue origini andaluse che per la sua implicazione nel caso dell'Opa di Gas Natural su Endesa, quando fu costretto alle dimissioni dal governo dopo la scoperta che La Caixa, cassa di risparmio catalana e maggiore azionista di Gas Natural, aveva recentemente e segretamente condonato debiti milionari al PSC.

La crisi del tripartito e le sue ripercussioni a livello nazionale spingevano molti a pronosticare un cambio di governo dopo le elezioni: CiU era data in crescita in tutti i sondaggi e i frequenti contatti tra Zapatero e il leader della coalizione nazionalista Artur Mas, che supporta anche il processo di pace con l'ETA, facevano pensare a un probabile esecutivo bipartito fra le due maggiori forze politiche catalane, la cosidetta “sociovergencia”. Un accordo che si sarebbe potuto riproporre su scala nazionale, come del resto successe diverse volte sia coi governi di González sia con quelli di Aznar, liberando i socialisti dai loro scomodi alleati di sinistra.
I risultati hanno però deluso le aspettative dei nazionalisti e di chi auspicava questa svolta moderata: il PSC ha sì perso voti, passando dal 31,17% al 26,81%, ma non a vantaggio di CiU, che è cresciuta solo dal 30,93% al 31,52%. In calo anche il PP, dal 11,87% al 10,64%, ed ERC, dal 16,47% al 14,06%, mentre ICV-EUiA è salita dal 7,30% al 9,56%.

Il consenso perso dai socialisti ha avvantaggiato quindi soprattutto i loro alleati di sinistra, segno che il malcontento dei catalani è legato soprattutto a questioni di politica economica e sociale, nei cui confronti il governo Maragall è apparso troppo timido.
L'unico vero elemento di novità di questa contesa elettorale è stato il 3,04% raccolto da Ciutadans, piattaforma civica lontana dai partiti tradizionali, che è riuscita a erodere voti soprattutto ai socialisti. Se le posizioni liberali e anglosassoni di Ciutadans possono aver avuto buon gioco contro una classe politica logorata, grazie all’utilizzo di ingenti dosi di antipolitica e senso comune, l'affermazione del nuovo soggetto politico si deve soprattutto al suo atteggiamento nei confronti della questione territoriale: Ciutadans non è catalanista. Difende il bilinguismo, attacca le eccessive rigidità imposte dalla politica culturale dei nazionalisti e di ERC, sostiene il diritto ad esprimersi in castigliano (quello che noi chiamiamo spagnolo) in ogni sede, anche nel parlamento della “Generalitat”. Posizioni eretiche, in un contesto in cui i politici catalani si esprimono in catalano anche ai microfoni delle tv nazionali. Ma posizioni che hanno trovato terreno fertile non solo tra i numerosi immigrati da altre regioni, che si sentono discriminati dalla politica linguistica della “Generalitat”, ma anche tra una certa base socialista tradizionale, che ha mal digerito la virata in senso catalanista degli ultimi anni.

La vittoria di CiU, in ogni caso, non ha restituito al nazionalismo conservatore il ruolo di perno della vita politica catalana perso nel 2003: nel giro di pochi giorni è apparso chiaro che l'ipotesi di sociovergencia era di gran lunga meno probabile rispetto a quella di un nuovo tripartito, che infatti sta per essere varato, seppure con un ruolo più limitato di ERC e del suo ingombrante leader Carod-Rovira. Il dibattito sull’investitura di venerdì ha riflettuto la situazione politica. Anche nella sede istituzionale è stato Ciutadans a monopolizzare l’attenzione: il giovane presidente del gruppo Albert Rivera ha infatti pronunciato il suo discorso quasi interamente in castigliano. Un esplicito atto di rottura, nella Catalogna dell’egemonia nazionalista. E sulla stessa linea sono stati i contenuti: Rivera ha attaccato le politiche identitarie, chiedendo “poteri pubblici neutrali” e proclamando che “non crediamo nei diritti storici, crediamo che i diritti siano dalla persona”.
Montilla ha avuto buon gioco a replicare, rigorosamente in catalano, che si tratta di “temi che non preoccupano ai cittadini anche se preoccupano Ciutadans”, proponendo le politiche sociali come contenuto forte del nuovo governo, superando la questione identitaria.
“Voglio essere il presidente di un governo che abbia come massima priorità le politiche sociali, il benessere delle persone” aveva dichiarato il giorno prima nel suo discorso di candidatura. La Catalogna, oggi, non ha bisogno di ricordare ossessivamente la sua marcata personalità nazionale. Quello di cui la Catalogna ha bisogno è un’azione di governo efficiente, che abbia come obiettivo creare le complicità sociali, economiche e culturali necessarie per svilupparsi come una società moderna, libera, colta, solidale, equilibrata, economicamente sviluppata e rispettosa dell’ambiente. Così faremo più patriottismo che con mille proclami sulla nostra identità”.

Montilla ha capito quindi, che superata la prova dell'”Estatut”, il suo governo sarà giudicato soprattutto sul piano della politica sociale ed economica, ambito nel quale lo stesso esecutivo Zapatero si gioca la credibilità necessaria ad affrontare sfide storiche come la pace con l'ETA. Di certo il segnale dato da Ciutadans in questo senso è forte: il catalanismo non basta più come collante sociale né come grimaldello politico. La questione territoriale che affligge la Spagna da decenni ha portato grosse fette di popolazione a uno stato di sfibrata rassegnazione. A Zapatero la scommessa di chiudere per sempre queste ferite e consegnare la Spagna a un futuro normale

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