di Michele Paris

Attraverso operazioni clandestine dirette dalla CIA, il governo americano continua a mantenere in vita almeno una forza speciale in territorio afghano, composta da soldati indigeni che combattono ufficialmente i Talebani pur macchiandosi di svariati crimini contro i civili con la benedizione di Washington. Se l’esistenza della cosiddetta Forza di Protezione di Khost (KPF), attiva nell’omonima provincia dell’Afghanistan orientale al confine con le aree tribali del Pakistan, è ben nota, una recente indagine del Washington Post ha spiegato il suo modus operandi, nonché i legami con la principale agenzia di intelligence USA e una serie di episodi cruenti mai documentati in precedenza e seguiti praticamente da nessuna conseguenza legale.

Le testimonianze raccolte dall’autore dell’articolo riguardano sei blitz della KPF avvenuti solo negli ultimi dodici mesi, durante i quali gli obiettivi delle operazioni hanno puntualmente sentito parlare in lingua inglese uomini armati con interpreti al seguito. Secondo il Post, i membri di questa forza speciale “raramente vengono incriminati per le morti indiscriminate” che provocano ed essa risulta “talmente potente e clandestina che le sue vittime di rado sono in grado di ottenere risarcimenti” per i danni subiti.

Formalmente, la KPF opera sotto il comando della Direzione Nazionale per la Sicurezza di Kabul - ovvero il servizio segreto afgano - ma in realtà a dirigere e finanziare le sue azioni è di fatto la CIA. Questo modello di gestione delle operazioni contro “insorti” e “terroristi” appare sempre più caratteristico dell’amministrazione Obama, intenzionata a ridurre al minimo indispensabile la presenza militare USA in paesi stranieri dopo la rovinosa esperienza dell’Iraq e, appunto, dell’Afghanistan.

La presenza della CIA dietro la KPF rappresenta però una palese contraddizione della politica ufficiale della Casa Bianca in relazione all’occupazione dell’Afghanistan. Solo lo scorso mese di ottobre, il presidente Obama aveva annunciato il prolungamento della permanenza di oltre cinquemila soldati americani nel paese centro-asiatico, fondamentalmente con due incarichi: addestrare le forze armate locali e combattere al-Qaeda.

Com’è noto, invece, le truppe di occupazione USA e quelle afgane conducono la propria guerra pressoché esclusivamente contro i Talebani, vista anche la quasi totale assenza del fondamentalismo qaedista in questo paese. Ciò conferma la natura dell’occupazione americana, ben lontana dall’essere un’impresa contro il terrorismo internazionale, quanto piuttosto uno sforzo per sostenere il governo-fantoccio di Kabul contro l’avanzata di una forza locale che, per quanto reazionaria e oscurantista, non ha altro che un’agenda domestica.

La KPF opera così in maniera congiunta con la CIA dalla base americana di Camp Chapman, nella stessa provincia di Khost. Come spiega il Washington Post, quest’ultima sarebbe molto probabilmente già nelle mani dei Talebani o dei loro alleati del clan Haqqani senza la presenza della KPF, portando quindi una minaccia molto seria nei confronti della non lontana capitale afgana.

Alcune voci apparse sui giornali americani lo scorso anno avevano descritto come la CIA stesse smantellando le proprie unità paramilitari in Afghanistan, tra cui la stessa KPF, nell’ambito del relativo disimpegno militare USA nel paese. Per il Washington Post, invece, una recente visita nella provincia di Khost ha confermato come la CIA continui a “dirigere le operazioni dell’unità speciale”, così come a “pagare gli stipendi dei suoi membri, ad addestrarli e a fornire gli equipaggiamenti” necessari.

Se l’impiego di forze clandestine afgane è sufficiente a generare preoccupazioni per il mancato rispetto dei diritti umani, i dubbi sono amplificati proprio dalla costante presenza della CIA. L’agenzia di Langley non è infatti tenuta al rispetto dell’Accordo Bilaterale sulla Sicurezza siglato tra Kabul e Washington per garantire la presenza militare americana in Afghanistan.

Questa intesa prevede tra l’altro restrizioni alla facoltà delle forze USA di fare irruzione nelle abitazioni civili afgane, ovvero di condurre i cosiddetti “raid notturni”, portati a termine ufficialmente a scopi anti-terroristici ma che provocano spesso vittime civili innocenti ed estremo risentimento tra la popolazione. L’ex presidente afgano, Hamid Karzai, era stato costretto a vietare queste incursioni nel 2013, anche se in base all’accordo bilaterale il suo più docile successore, Ashraf Ghani, le ha in seguito nuovamente consentite se condotte sotto la direzione dei propri militari.

La CIA non è inoltre soggetta alle procedure previste dalla Legge Leahy che obbligano gli Stati Uniti a valutare il rispetto dei diritti umani delle forze armate straniere sostenute finanziariamente o logisticamente. Questa eccezione, d’altra parte, serve tradizionalmente agli USA per appoggiare forze criminali per i propri fini strategici pur nel formale rispetto dei diritti umani.

Tra i casi narrati dal Washington Post vi è quello relativo a un raid notturno condotto lo scorso settembre nella località di Tor Ghar. A ricordare l’episodio è il cittadino afgano Darwar Khan, il quale sostiene che gli uomini della KPF spararono al padre non appena quest’ultimo aprì la porta della sua abitazione durante il blitz. Subito dopo una granata venne gettata all’interno, provocando la morte della madre.

L’obiettivo presunto dell’operazione doveva essere uno zio di Darwar Khan che viveva in un edificio vicino ed era colpevole di avere acquistato e rivenduto Kalashnikov, secondo il Post “non esattamente il tipo di sospetto di alto profilo solitamente perseguito dalla CIA”. Alcuni giorni dopo, i vertici della KPF avrebbero riconosciuto l’errore e consegnato al figlio delle due vittime 11 mila dollari di risarcimento.

Altre testimonianze parlano di detenzioni presso la base americana di Camp Chapman e di relativi maltrattamenti e torture. Un recente rapporto ONU ha poi rivelato come cinque persone arrestate tra il 2013 e il 2014 dagli uomini della KPF e della CIA fossero stati sottoposti a “maltrattamenti” e due di essi a quelle che potevano essere classificate come “torture”.

Quando le operazioni della KPF provocano dei morti, molto difficilmente i responsabili sono chiamati a fare i conti con la giustizia. Sei mesi fa, ad esempio, uno studente di 17 anni che stava attraversando un posto di blocco della KPF mentre ascoltava musica dalle cuffie è stato ucciso perché non aveva sentito l’ordine di fermarsi. L’assassinio non è stato seguito da nessuna indagine e il governo ha offerto alla famiglia del ragazzo cinquemila dollari come risarcimento.

L’unico episodio che ha registrato incriminazioni e un processo risale al dicembre del 2014, quando 14 membri della KPF aprirono il fuoco contro un edifico, all’interno del quale venne ucciso un 14enne. Il padre, che nulla aveva a che fare con i Talebani, riuscì ad avere una qualche forma di giustizia solo perché era un ex comandante mujahedeen con amicizie nel governo di Kabul.

La KPF fu costretta a consegnare alle autorità di polizia tre suoi combattenti e durante il processo emerse come il team protagonista del raid avesse piazzato un fucile AK-47 vicino al corpo del giovane ucciso per farlo apparire armato. Alla fine, uno degli accusati venne assolto mentre gli altri due ricevettero condanne a dieci anni di carcere.

Gli abusi delle forze speciali attive a Khost con il pieno appoggio della CIA contribuiscono inevitabilmente ad accrescere il risentimento degli afgani nei confronti dell’occupazione statunitense. L’anti-americanismo a Khost si traduce così frequentemente in marce di protesta dirette alla base di Camp Chapman ogniqualvolta si verifichi una o più vittime della missione “liberatrice” USA contro la minaccia talebana.

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