di Michele Paris

L’ennesimo omicidio di un cittadino americano per mano della polizia è stato seguito nei giorni scorsi da una nuova ondata di proteste popolari in una città degli Stati Uniti e dalla massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza in uno scenario di fatto da legge marziale. La rabbia esplosa a inizio settimana a Baltimora, nel Maryland, è stata scatenata dalla morte del 25enne di colore Freddie Gray dopo che era stato preso in custodia dalla polizia il 12 aprile scorso in seguito all’arresto perché in possesso di un coltello a scatto. Gray era deceduto sette giorni più tardi a causa di gravi lesioni subite alla spina dorsale.

Le proteste contro la brutalità della polizia si erano intensificate dopo i funerali di Gray e nella notte di lunedì si sono verificati gli scontri più gravi, con alcuni edifici pubblici ed esercizi commerciali assaltati e dati alle fiamme. Questi episodi hanno spinto le autorità di Baltimora a dichiarare il coprifuoco a partire dalla serata di martedì, nonché a dispiegare nella città ben duemila uomini della Guardia Nazionale e altre centinaia di agenti dello stato e dei dipartimenti di polizia di località limitrofe.

Inizialmente, centinaia di manifestanti hanno sfidato il coprifuoco e l’intervento della polizia, dotata di veicoli e mezzi da guerra come previsto dal programma di trasferimento di equipaggiamenti militari dal Pentagono ai dipartimenti americani, ma in seguito la situazione è tornata relativamente sotto controllo.

Il dispiegamento di forze visto a Baltimora ricorda quello avvenuto lo scorso novembre a Ferguson, nel Missouri, dopo l’esplosione della rabbia popolare a causa dell’annuncio della decisione di un Grand Jury di non incriminare il poliziotto reponsabile della morte del 18enne di colore, Michael Brown.

A distanza di pochi mesi, la polizia americana ha ucciso altre 500 persone e, soprattutto, è stata registrata una nuova clamorosa esplosione del gravissimo malessere sociale che attraversa gli Stati Uniti, accolta ancora una volta con metodi repressivi e violenti da una classe dirigente sempre più lontana dai problemi della grande maggioranza della popolazione.

Di fronte alle manifestazioni di rabbia non solo per la condotta della polizia e l’impunità di cui godono i suoi membri, ma anche e soprattutto per le condizioni di povertà e degrado sociale con cui milioni di persone sono costrette a fare i conti, i vertici politici della città di Baltimora, dello stato del Maryland e dello stesso governo federale hanno fatto quadrato, riservando denunce e disprezzo verso coloro che sono scesi nelle strade per protestare.

Il sindaco democratico e di colore della città, Stephanie Rawlings-Blake, nel corso di una conferenza stampa tenuta lunedì aveva bollato come “teppisti” i manifestanti, salvo poi pentirsi e chiedere scusa ai suoi concittadini. La stessa definizione di “teppisti” è stata però utilizzata da molti in questi giorni, non solo tra i politici, come il governatore repubblicano del Maryland Larry Hogan, ma anche tra i commentatori dei media “mainstream”.

Lo stesso presidente Obama, nel corso di un vertice con il premier giapponese Abe all’insegna del militarismo, ha avuto soltanto parole di condanna per gli abitanti di Baltimora che protestavano contro la polizia. Obama ha affermato che coloro che hanno fatto ricorso a metodi violenti “non hanno scuse” per un comportamento che “sottrae lavoro e opportunità agli abitanti di quest’area”.

La reazione dei politici americani ai fatti di Baltimora è dunque prevedibilmente caratterizzata dal completo disinteresse per le condizioni di forte disagio e sopraffazione in cui sono costretti a vivere ampi strati della popolazione negli Stati Uniti.

Le manifestazioni di Baltimora, così come quelle di Ferguson, sono il sintomo di una realtà sociale pronta a esplodere sotto le pressioni di un processo che da decenni ha prodotto regressione e povertà, frutto di dinamiche economiche, favorite dalla classe al potere, che hanno fatto della società americana una delle più inique tra i paesi sviluppati.

La deindustrializzazione forzata che ha interessato vaste aree degli Stati Uniti si è accompagnata alla finanziarizzazione dell’economia, con il conseguente trasferimento della ricchezza dai lavoratori e dalla classe media a una ristretta élite parassitaria. A questa evoluzione ha contribuito in maniera decisiva l’amministrazione Obama, dal momento che negli anni seguiti alla crisi del 2008 praticamente tutto l’aumento di ricchezza prodotto negli USA è andato a beneficio dell’1% situato al vertice della piramide sociale.

Il quartiere di Baltimora in cui è cresciuto Freddie Gray - Sandtown-Winchester - è una sorta di emblema del dramma vissuto da intere comunità nelle ex aree industriali degli Stati Uniti. Qui, più della metà della popolazione tra i 16 e i 64 anni risulta senza lavoro e il reddito medio annuo pro-capite è al di sotto della soglia ufficiale di povertà. Inoltre, il livello di degrado è confermato dal fatto che tra un quarto e un terzo degli edifici di Sandtown è a tutt’oggi disabitato.

Nonostante queste condizioni, per Obama e il resto della classe politica USA non esistono “scuse” o “ragioni” dietro all’esplosione della rabbia degli abitanti di Baltimora. La loro indifferenza è tanto più spietata alla luce del fatto che, al contrario, le “scuse” continuano ad abbondare per le politiche repressive e violente del governo e delle forze di polizia.

Solo pochi giorni prima degli scontri a Baltimora, Obama si era ad esempio presentato in pubblico ammettendo la sua responsabilità nell’assassinio con un missile lanciato da un drone di due operatori umanitari in Pakistan ostaggi di al-Qaeda. La “scusa”, in questo caso, è legata alla farsa della “guerra al terrore”, la quale ha fornito e continua a fornire la giustificazione per la distruzione di interi paesi.

Le “scuse” sono poi puntualmente a disposizione della stessa polizia americana che uccide cittadini quasi sempre disarmati e inoffensivi senza che vi sia alcuna conseguenza legale per i responsabili.

I fatti di Baltimora hanno infine confermato ancora una volta come il fattore razziale, se pure importante, è tutt’altro che determinante in circostanze simili. Dal sindaco della città fino all’inquilino della Casa Bianca, passando per i membri del Congresso e i professionisti del contenimento delle tensioni sociali legati al Partito Democratico, come il reverendo Al Sharpton, tutti i leader della comunità afro-americana hanno condannato senza riserve le proteste per la morte di Freddie Gray e appoggiato la militarizzazione della città del Maryland.

Se a soffrire delle peggiori condizioni sociali ed economiche negli Stati Uniti sono spesso gli americani di colore, la questione cruciale per la comprensione delle esplosive tensioni sociali che attraversano questo paese non è però legata alla razza bensì alle differenze di classe, imposte spietatamente da un apparato di potere, composto sia da bianchi che da neri, pronto a utilizzare metodi da stato di polizia per schiacciare la resistenza di chiunque si batta per un sistema diverso.

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