di Michele Paris

Da una possibile clamorosa sconfitta per mano del moribondo centro-sinistra israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu è passato martedì all’ennesima vittoria elettorale e il giorno successivo all’avvio dei negoziati per mettere assieme una maggioranza parlamentare in grado di sostenere il prossimo governo di Tel Aviv. Pur nello scampato pericolo, il premier non avrà vita facile nell’immediato futuro, dal momento che l’esecutivo che si annuncia sarà con ogni probabilità attraversato dalla medesima instabilità che sul finire del 2014 lo aveva spinto a indire elezioni anticipate.

Come è ormai ben noto, la serata elettorale in Israele era stata caratterizzata dall’errore di valutazione dei sondaggi che nelle settimane e nei giorni precedenti il voto ipotizzavano dapprima una gara equilibrata tra il Likud di Netanyahu e l’Unione Sionista di centro-sinistra e poi addirittura un lieve vantaggio per quest’ultima coalizione.

Alla fine, il Likud ha ottenuto 30 seggi sui 120 complessivi della Knesset (Parlamento), con un guadagno netto di 12 rispetto al 2013. L’Unione Sionista, invece, si è fermata a 24 seggi. Nelle precedenti elezioni, il Likud si era però presentato in una lista unica con il partito di estrema destra secolare Yisrael Beiteinu del ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, conquistando complessivamente 31 seggi.

Il recupero fatto segnare dal Likud negli ultimi giorni di campagna elettorale sarebbe da ascrivere alla netta sterzata destrorsa e apertamente razzista impressa da un Netanyahu sempre più disperato. In particolare, il premier aveva spostato l’obiettivo della propria aggressività verbale dall’Iran ai palestinesi, giungendo a dichiarare la sua contrarietà alla cosiddetta soluzione dei due stati.

Se questa affermazione non ha fatto altro che ufficializzare la reale attitudine di Netanyahu circa la soluzione quasi universalmente preferita per dirimere la questione palestinese, le sue parole hanno nondimeno galvanizzato la base elettorale della destra israeliana.

Allo stesso modo, il giorno prima del voto Netanyahu aveva fatto un’insolita apparizione in un insediamento illegale a Gerusalemme Est, promettendo altre costruzioni sul territorio palestinese e denunciando sostanzialmente la popolazione araba di Israele per la probabile affluenza di massa alle urne che avrebbe fatto registrare in questa tornata elettorale.

Gli appelli del premier sembrano essere così riusciti a drenare verso il Likud un numero considerevole di voti dalle altre formazioni di destra del panorama politico israeliano, le quali hanno appunto fatto registrare flessioni più o meno sensibili rispetto al precedente appuntamento elettorale.

Oltre al già citato Yisrael Beiteinu, che ha perso 6 seggi, sono risultati in calo anche la Casa Ebraica (-4) del ministro dell’Economia, Naftali Bennett, e i partiti ultra-ortodossi Shas (-4) e Giudaismo Unito della Torah (-1). Tutte queste formazioni, nettamente indebolite, dovranno sostenere il prossimo governo Netanyahu, anche se saranno comunque necessari altri seggi per raggiungere la maggioranza assoluta alla Knesset.

Decisamente remoto appare un nuovo accordo con il partito centrista Yesh Atid dell’ex ministro delle Finanze, Yair Lapid, al centro dello scontro con Netanyahu che aveva portato al voto anticipato. Escludendo anche un governo di unità nazionale con l’Unione Sionista - formata dal Partito Laburista del candidato premier, Isaac Herzog, e da Hatnuah dell’ex ministro della Giustizia, Tzipi Livni - di cui pure si era parlato alla vigilia del voto, l’opzione più probabile è quella di un accordo con il nuovo partito Kulanu (“Tutti Noi”), fondato nel novembre dello scorso anno e in grado di ottenere 10 seggi.

Il leader di Kulanu è l’ex membro del Likud, Moshe Kahlon, più volte ministro nei governi Netanyahu e protagonista di una rottura con il premier che lo aveva portato a fondare un proprio movimento “centrista”. I rapporti tra i due non sembrano essersi eccessivamente deteriorati e durante la campagna elettorale Kahlon aveva lasciato intendere di volere sostenere chiunque sarebbe uscito vincitore dalle urne. Nei giorni scorsi, poi, Netanyahu aveva offerto l’incarico di ministro delle Finanze allo stesso Kahlon.

L’affermazione di Netanyahu, nonostante il diffusissimo senso di insofferenza in Israele nei confronti della fissazione del premier per la fantomatica minaccia iraniana e, più in generale, per i temi della sicurezza nazionale, solleva parecchi interrogativi sulla prestazione del principale raggruppamento dell’opposizione, l’Unione Sionista.

L’alleanza elettorale tra Herzog e Livni ha rappresentato da un lato una minaccia concreta per il Likud da molti anni a questa parte ma, dall’altro, non è stata in grado di capitalizzare il malcontento popolare per una situazione economica caratterizzata da enormi disuguaglianze sociali e di reddito.

Il fatto che i due leader avessero ricoperto vari incarichi di spicco in passato non ha indubbiamente aiutato, vista la scarsissima considerazione degli elettori per l’establishment poltico in generale. Soprattutto, però, il candidato premier Herzog non è stato in grado di costruirsi un’immagine solida di leader né, ancor più, di mettere in atto una campagna elettorale sufficientemente aggressiva e convincente sui temi economici, fondamentalmente per via della mancanza di un programma progressista alternativo a quello della destra al governo.

Il dato più significativo del voto di martedì è stato così probabilmente il risultato della Lista Araba Unificata, frutto dell’accordo di quattro partiti che rappresentano gli arabi israeliani. Separatamente, le quattro formazioni avevano un totale di 11 seggi nella Knesset uscente, mentre ne avranno 14 in quella appena eletta. La Lista Araba Unificata è stata perciò la terza forza uscita dalle urne, anche se i partiti arabi in Israele vengono puntualmente emarginati dalla classe politica ebraica.

Il successo di Netanyahu e la prossima inaugurazione del suo quarto mandato alla guida del governo hanno prodotto una valanga di commenti sui media israeliani e internazionali circa le intenzioni del premier e l’orientamento del prossimo gabinetto.

Molti problemi sul fronte domestico il premier li aveva dovuti affrontare a causa del peggioramento delle relazioni con l’amministrazione Obama, ulteriormente aggravate dopo il discorso tenuto al Congresso di Washington ai primi di marzo senza avere concordato l’evento con la Casa Bianca.

Su Netanyahu erano piovute accese critiche da parte di numerosi esponenti politici e dell’apparato della sicurezza, preoccupati per una possibile rottura con gli Stati Uniti e il conseguente ulteriore isolamento internazionale di Israele. Da verificare sarà perciò l’atteggiamento di Netanyahu nei confronti del principale alleato del suo paese, soprattutto in vista della scadenza per il raggiungimento di un accordo sul nucleare iraniano, visto da Tel Aviv con estrema preoccupazione.

Alla luce delle frizioni con Washington, in molti si chiedono poi se Netanyahu continuerà a respingere la soluzione dei due stati come ha fatto in campagna elettorale. Alcuni commentatori hanno ricordato la natura pragmatica o, meglio, opportunista di Netanyahu, non escludendo perciò un ritorno sui propri passi in merito alla questione di un futuro stato palestinese.

In realtà, la posizione ufficiale di Netanyahu su tale questione non comporta una gran differenza per i palestinesi, visto che, come ha spiegato un paio di giorni fa alla Reuters il capo dei negoziatori palestinesi nei colloqui di pace ormai collassati, Saeb Erekat, il premier “durante la sua carriera politica non ha fatto altro che distruggere la soluzione dei due stati”.

Se le circostanze lo dovessero costringere ad assumere una posizione più conciliante verso gli Stati Uniti, tuttavia, è probabile che Netanyahu possa tornare ad appoggiare almeno nominalmente questa soluzione, se non addirittura mostrarsi disponibile alla riapertura del “processo di pace” mediato da Washington, sia pure solo per prolungare la farsa di negoziati senza alcuna prospettiva.

Una parte dei dubbi sul futuro governo di Tel Aviv sarà sciolta dopo l’annuncio dell’accordo con i nuovi partner di governo e delle nomine ai principali ministeri. Quel che è certo, comunque, è che le contraddizioni di una società israeliana sempre più polarizzata e stanca di uno stato di guerra permanente difficilmente potranno essere risolte dalla stessa leadership che ha presieduto alla creazione dello scenario attuale.

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