di Michele Paris

Da un interrogatorio connesso a un procedimento legale in corso negli Stati Uniti a carico del regime dell’Arabia Saudita sono giunte gravissime accuse nei confronti della casa regnante di questo paese del Golfo Persico e, indirettamente, del governo americano suo alleato. La testimonianza in questione è quella di Zacarias Moussaoui, ex corriere di al-Qaeda molto vicino a Osama bin Laden, sentito in carcere lo scorso mese di ottobre dai legali dei famigliari delle vittime dell’11 settembre nell’ambito di una causa che intende chiarire le responsabilità saudite negli attentati del 2001.

Moussaoui ha lanciato accuse che pesano come macigni e, inevitabilmente, è stato subito denunciato dalla monarchia saudita come un “criminale disturbato” e un “malato mentale”. Una diagnosi relativa al suo presunto disagio mentale era stata in effetti presentata da uno psicologo nel corso del processo a suo carico nel 2006, conclusosi con una condanna all’ergastolo, anche se gli avvocati che hanno raccolto la recente deposizione in un carcere di massima sicurezza del Colorado hanno definito l’uomo “completamente sano di mente”.

In passato, alcune sue testimonianze erano state inoltre controverse e successivamente smentite, ma il giudice che presiedette il procedimento penale, Leonie Brinkema, aveva definito Moussaoui “del tutto capace di intendere” e “estremamente intelligente”. Il giudice aveva anche affermato, in maniera non troppo scherzosa, che l’imputato aveva “una migliore comprensione del sistema legale di quanto non l’avessero alcuni avvocati” di sua conoscenza.

Soprattutto, le accuse rivolte a Riyadh di finanziare direttamente e indirettamente il fondamentalismo sunnita coincidono con numerose indagini e rivelazioni che, nel recente passato, hanno messo in luce quanto meno l’ambiguità del regno nei confronti del terrorismo internazionale.

Moussaoui, in sostanza, ha raccontato di come i più generosi finanziatori di al-Qaeda fino alla fine degli anni Novanta fossero stati alcuni membri di spicco della casa regnante saudita, tra cui l’attuale sovrano, Salman, salito al trono solo pochi giorni fa in seguito al decesso del fratellastro, Abdullah.

In qualità di responsabile per al-Qaeda, tra il 1998 e il 1999, della creazione di un archivio digitale contenente i nomi dei finanziatori dell’organizzazione terroristica, Moussaoui ha ricordato una serie di incontri con i leader sauditi. Tra i più autorevoli membri della famiglia reale finiti nel database figurano l’allora capo dell’intelligence, principe Turki al-Faisal, l’ex potente ambasciatore di Riyadh a Washington, Bandar bin Sultan, e l’imprenditore miliardario Al-Waleed bin Talal.

Come risulta evidente dalla sua testimonianza, Moussaoui agiva da intermediario tra Osama bin Laden e gli ambienti di corte e del clero in Arabia Saudita. Addirittura, lo stesso testimone avrebbe discusso a Kandahar, in Afghanistan, con un diplomatico dell’ambasciata saudita negli Stati Uniti un piano per abbattere l’aereo presidenziale (Air Force One) con un missile Stinger.

Moussaoui sarebbe stato poi arrestato dagli agenti dell’immigrazione americana prima di potere effettuare il sopralluogo che avrebbe dovuto precedere il clamoroso attentato. Nel 2006, come già ricordato, Moussaoui venne infine condannato all’ergastolo per la sua partecipazione ai preparativi dell’11 settembre, nonostante il giorno degli attacchi fosse detenuto in un carcere del Minnesota.

Il procedimento in atto negli Stati Uniti contro l’Arabia Saudita era scaturito da una denuncia intentata già nel 2002 dai parenti delle vittime degli attentati al World Trade Center e al Pentagono. Nel 2005 la causa era stata annullata in primo grado e successivamente anche in appello con la motivazione che l’Arabia Saudita godeva di “immunità sovrana”.

In seguito, la stessa corte d’Appello avrebbe però cambiato la propria decisione, riavviando il procedimento. I legali del regno si sono allora rivolti alla Corte Suprema, la quale si è rifiutata di esprimersi, consentendo al processo di continuare in un tribunale federale di New York.

La testimonianza di Zacarias Moussaoui è stata resa pubblica questa settimana, in quanto facente parte dei documenti presentati dall’accusa per impedire l’ennesima richiesta dell’Arabia Saudita di annullare il procedimento. Riyadh sostiene di non avere avuto alcun ruolo nel finanziamento di al-Qaeda e degli autori degli attentati del 2001, come avrebbe confermato anche il rapporto della commissione speciale sull’11 settembre.

In realtà, il rapporto pubblicato nel 2004 lascia parecchi dubbi in proposito. In esso si afferma che “non sembrano esserci prove del fatto che altri governi, oltre a quello dei Talebani [in Afghanistan], abbiano sostenuto finanziariamente al-Qaeda prima dell’11 settembre, nonostante all’interno di alcuni governi possano esserci stati simpatizzanti che hanno chuso un occhio di fronte alle attività di raccolta fondi” dell’organizzazione terroristica fondata da bin Laden.

“L’Arabia Saudita”, continua il rapporto, “è da tempo considerata la principale fonte di finanziamento di al-Qaeda”, tuttavia i membri della commissione sull’11 settembre “non hanno trovato prove che il governo saudita come istituzione o importanti esponenti sauditi su iniziativa individuale abbiano finanziato l’organizzazione” terroristica.

Questa difesa di Riyadh è comunque parzialmente smentita da un’altra conclusione contenuta nel rapporto, quando cioè la commissione sostiene di non potere escludere che “organizzazioni caritative sponsorizzate dal governo saudita abbiano dirottato fondi verso al-Qaeda”.

Ancora più sospetto è infine il fatto che 28 pagine del rapporto sui fatti dell’11 settembre continuano a rimanere classificati. Secondo alcuni, in questi documenti ci sarebbero appunto le prove delle responsabilità saudite, tra cui forse un rapporto della CIA nel quale si sostiene che alti esponenti della diplomazia e dell’intelligence di Riyadh hanno assistito logisticamente e finanziariamente gli attentatori. Quindici di questi ultimi, d’altra parte, erano di nazionalità saudita, come lo stesso bin Laden, originario di una ricca e influente famiglia del regno.

I finanziamenti provenienti dal regno saudita e diretti ad al-Qaeda sembrano essere passati proprio da organizzazioni con scopi apparentemente caritatevoli, messe in piedi dai vertici del regime del Golfo Persico. Una di queste è ad esempio l’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina, fondata nel 1993 dall’attuale sovrano, Salman.

Questa organizzazione aveva raccolto ben 600 milioni di dollari da spendere nei Balcani e la sua opera andava con ogni probabilità oltre gli scopi umanitari. Quando, infatti, nel febbraio del 2002 i caschi blu dell’ONU fecero irruzione in un ufficio della stessa Commissione a Sarajevo trovarono, tra l’altro, immagini di installazioni militari americane e di luoghi colpiti da attentati di al-Qaeda, istruzioni su come creare falsi badge del Dipartimento di Stato USA e informazioni relative ad attacchi con armi biologiche.

Inoltre, quando nell’ottobre del 2001 gli Stati Uniti arrestarono sei cittadini algerini con l’accusa di avere progettato attacchi contro l’ambasciata USA di Sarajevo, si scoprì che uno di essi era un dipendente proprio dell’Alta Commissione Saudita per l’Assistenza alla Bosnia-Herzegovina e che aveva avuto contatti telefonici con bin Laden e altri leader di al-Qaeda.

I sospetti sui legami tra Riyadh e al-Qaeda sono innumerevoli, come quelli che riguarderebbero il figlio defunto di re Salman, Ahmed bin Salman. Quest’ultimo, secondo quanto affermato in un libro del giornalista americano Gerald Posner, sarebbe stato legato all’organizzazione jihadista, nonché a conoscenza dei preparativi per gli attacchi dell’11 settembre 2001.

Proprio il nuovo sovrano saudita sarebbe stato dunque l’uomo incaricato di supervisionare il trasferimento di fondi dai donatori del regno alle formazioni integraliste. In questa attività, d’altra parte, Salman vanta parecchia esperienza, visto che, come ha scritto recentemente l’ex agente della CIA, Bruce Riedel, sulla testata americana on-line The Daily Beast, si era occupato della “raccolta di fondi privati per sostenere i mujahedeen afgani negli anni Ottanta, lavorando a stretto contatto con l’establishment clericale wahabita del regno”.

Com’è noto, la nascita di al-Qaeda è legata direttamente alla lotta contro l’occupazione sovietica dell’Afghanistan dei mujahedeen, appoggiati militarmente e finanziariamente da Arabia Saudita, Stati Uniti e Pakistan. Durante il conflitto scatenato contro i sovietici in Afghanistan, Salman garantiva “25 milioni di dollari ogni mese ai mujahedeen”, mentre sarebbe stato successivamente impegnato anche nella raccolta di fondi per i musulmani di Bosnia in guerra contro la Serbia.

Grazie a questi benefattori, le forze jihadiste attive in Asia centrale hanno potuto crescere rapidamente, ampliando la propria agenda integralista per dedicarsi ad attività di terrorismo su scala internazionale. Anche se spesso i bersagli sono stati gli stessi interessi dei loro sponsor, soprattutto quelli americani, Riyadh, ma anche Washington, ha continuato a mantenere rapporti a dir poco ambigui con queste formazioni, considerandole più che utili alla promozione dei propri interessi.

Le conseguenze di questo gioco pericoloso si sono potute osservare non solo in occasione dell’11 settembre 2001 ma, più recentemente, nelle vicende di paesi come Libia o Siria, dove l’appoggio a gruppi estremisti nella lotta contro regimi sgraditi agli USA e ai loro alleati ha prodotto situazioni esplosive, esemplificate dal dilagare in Medio Oriente della minaccia dello Stato Islamico (ISIS).

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