di Michele Paris

La visita di questa settimana in Turchia del presidente russo, Vladimir Putin, ha segnato un altro capitolo nel processo di allontanamento di Mosca dall’Europa in seguito alla crisi ucraina, provocando inoltre uno scossone nel mercato energetico del vecchio continente. In primo luogo, il vertice tra Putin e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdogan, ha confermato l’estremo pragmatismo dei leader di due governi che si trovano su posizioni diametralmente opposte attorno alla vicenda siriana.

I due presidenti, ad esempio, si sono impegnati a portare gli scambi commerciali bilaterali annui tra le rispettive economie dai poco più di 30 miliardi di dollari attuali a 100 miliardi entro il 2020.

L’intensificazione delle relazioni tra i due paesi risulta però evidente soprattutto in ambito energetico e si sovrappone proprio allo scontro tra Occidente e Russia, mostrando ancora una volta l’inettitudine e le tendenze autolesioniste dei vertici politici europei.

L’arrivo di Putin ad Ankara lunedì era stato accompagnato da un patetico appello alla Turchia del segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, a unirsi a Stati Uniti e UE nell’applicazione delle sanzioni economiche imposte ai danni della Russia a causa della presunta invasione del territorio ucraino.

Senza dubbio su richiesta di Washington, l’ex premier laburista norvegese aveva cioè provato disperatamente a sventare quanto è invece accaduto in maniera puntuale nella capitale turca, vale a dire la creazione dell’ennesima partnership energetica con al centro la Russia, sempre più assurdamente definita dall’Occidente come “isolata” sulla scena internazionale per via dell’atteggiamento del suo governo in Ucraina.

D’altra parte, non solo la Turchia non poteva mettere a rischio la propria sicurezza energetica - a differenza di quanto ha fatto Bruxelles - di fronte a una realtà nella quale il 60% delle sue importazioni di gas vengono dalla Russia, ma ha anche approfittato dell’irrazionale politica estera europea, ottenendo da Mosca vantaggi significativi in un settore cruciale per la propria stabilità economica.

Quella che il New York Times ha in maniera ridicola definito come una “rara vittoria diplomatica” per l’UE, è stata quindi annunciata direttamente da Putin in una conferenza stampa con Erdogan. La Russia, cioè, ha decretato la morte dell’ambizioso progetto di costruzione del gasdotto South Stream, il quale avrebbe dovuto attraversare vari paesi europei - tra cui i membri UE Bulgaria, Ungheria, Slovenia e Austria - che raccoglieranno ora probabilmente ben pochi frutti dalla “vittoria” messa a segno da Bruxelles e Washington.

I benefici economici di cui questi governi avrebbero potuto godere saranno raccolti invece da Ankara, poiché il Cremlino dirotterà il proprio gas verso un impianto che il gigante Gazprom costruirà al di sotto del Mar Nero e in territorio turco fino al confine con la Grecia. Da qui, se sarà “economicamente giustificato dalle condizioni di mercato in Europa”, il gas sarà venduto ai paesi meridionali dell’Unione, i quali finirebbero così per dipendere per buona parte dei loro approvvigionamenti dalla Turchia, un paese che attende l’ammissione nel blocco continentale da quasi tre decenni e con cui i rapporti si sono sensibilmente raffreddati negli ultimi tempi.

Riflettendo la necessità di convincere Erdogan a non adottare le sanzioni occidentali, Putin ha inoltre concesso uno sconto del 6% a partire dal prossimo anno sulle forniture di gas alla Turchia, la quale otterrà da subito anche 3 miliardi di metri cubi in più rispetto ai livelli attuali attraverso il già attivo gasdotto Blue Stream.

Il motivo dell’abbandono del progetto South Stream da parte della Russia è legato alla decisione del governo bulgaro di congelarne la costruzione. L’iniziativa di Sofia era arrivata tuttavia lo scorso giugno in seguito alle enormi pressioni esercitate da Bruxelles, con la scusa che l’impianto avrebbe violato le norme europee sulla competizione che stabiliscono come il proprietario di un gasdotto, in questo caso Gazprom, non possa allo stesso tempo essere anche il fornitore del gas che vi transita.

La mossa era stata però interamente politica e legata alla vicenda ucraina, tanto più che, come sostiene Mosca, il cosiddetto “Terzo pacchetto energia” UE era entrato in vigore solo dopo che la Russia aveva siglato accordi bilaterali con i vari governi coinvolti nel progetto South Stream.

A spingere Putin ad abbandonare la costruzione del gasdotto ha forse contribuito anche il lievitare dei costi - stimati in oltre 23 miliardi di dollari per il solo tratto sottomarino in Europa orientale - a fronte delle difficoltà delle banche russe a ottenere accesso ai finanziamenti in Occidente dopo l’adozione delle sanzioni da parte di Washington e Bruxelles.

In ogni caso, questi ultimi sviluppi segnano un’occasione mancata dall’Europa per assicurarsi con un certo vantaggio economico la fornitura stabile di un gas russo che, nonostante i proclami circa la necessità di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento, dovrà essere necessariamente acquistato ancora per molti anni. Il South Stream, infatti, era nato con l’intenzione di aggirare le attuali rotte che passano attraverso l’Ucraina, dove la crisi politica ed economica in atto appare lontana dall’essere risolta.

L’accordo appena siglato dalla Russia con la Turchia segue inoltre quelli ben più consistenti sottoscritti quest’anno in due occasioni con la Cina, la quale potrebbe diventare nel prossimo futuro il primo mercato del gas russo nel quadro di una crescente partnership strategica ed economica tra Mosca e Pechino. Quest’ultima evoluzione è considerata come una minaccia da Washington ai propri interessi strategici ma risulta di fatto accelerata proprio dallo scontro attorno alla vicenda ucraina provocato dagli Stati Uniti stessi e dalla Germania.

La decisione di Putin di questa settimana avrà qualche effetto infine anche sull’Italia, nonostante il nostro paese fosse stato tagliato fuori dal South Stream qualche mese fa. ENI, innanzitutto, è socia al 20% del consorzio incaricato della costruzione del gasdotto - assieme alla francese EDF, alla tedesca Wintershall e, ovviamente, a Gazprom - nonostante i suoi vertici avessero recentemente ipotizzato un ritiro dal progetto a causa dei costi eccessivi.

A essere colpita è poi anche Saipem, la società d’ingegneria controllata da ENI, che, come ha scritto martedì IlSole24Ore, “per la tratta sottomarina [nel Mar Nero] ha già cominciato a lavorare, grazie a tre contratti di appalto, l'ultimo dei quali - il più ricco, da 2 miliardi di dollari - era stato assegnato soltanto in marzo”.

Saipem, secondo Repubblica, “ha delle clausole di protezione nel contratto che tuttavia coprono solo una parte limitata del progetto”. L’azienda ha comunque diffuso una dichiarazione nella quale ha precisato di “non avere ricevuto alcuna comunicazione di formale interruzione del contratto dal cliente South Stream Transport”, senza riuscire però a evitare un pesante tonfo in Borsa nella giornata di martedì.

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