di Carlo Musilli

Jean-Claude Juncker è "un nome, non il nome", secondo Matteo Renzi. Per David Cameron, invece, l'ex premier del Lussemburgo è il più inaccettabile dei conservatori: se sarà lui il prossimo presidente della Commissione europea, la Gran Bretagna dirà addio all'Unione. Stando a quanto riporta Der Spiegel, la minaccia sarebbe arrivata dal primo ministro britannico martedì scorso, durante l'ultimo vertice Ue. 

Il numero uno di Downing Street ritiene che la scelta di Juncker "destabilizzerebbe così tanto il suo governo - si legge sul settimanale tedesco - che Londra sarebbe costretta ad anticipare il referendum sulla permanenza nell'Unione europea", e il risultato a quel punto sarebbe certamente favorevole all'uscita, perché "un uomo degli anni Ottanta non può risolvere i problemi dell'Europa di oggi". Questa posizione ieri ha incassato anche l'autorevole sostegno del Financial Times, d'accordo con la necessità di rintracciare un "volto nuovo".

Cameron si sarebbe rivolto in particolare alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che però venerdì scorso - dopo qualche esitazione - ha confermato l'appoggio della Germania alla candidatura di Juncker.

In termini generali, le conclusioni cui giunge il premier inglese possono essere condivisibili: dopo essersi riempiti la bocca per mesi di espressioni propagandistiche come "rinnovamento" e "cambio di rotta", i leader europei cadrebbero nella più grottesca incoerenza se scegliessero come presidente della Commissione l'ex numero uno dell'Eurogruppo, un veterano simbolo della nomenclatura che negli ultimi anni ha governato a Bruxelles. Sarebbe come ammettere che ogni cambiamento è possibile soltanto nel magico regno delle vuote ciarle.

D'altra parte, scartare a priori Juncker non è affatto semplice. Era lui il candidato ufficiale del Partito popolare europeo, lo schieramento che - pur avendo perso milioni di voti rispetto alle consultazioni del 2009 - si è classificato primo alle recenti elezioni comunitarie. Spetterebbe quindi a lui il tentativo di creare una nuova squadra di governo a Bruxelles, come ha riconosciuto perfino Alexis Tsipras, candidato dalla sinistra alternativa rappresentata dal GUE.

Negare a Juncker questa possibilità significherebbe far prevalere gli interessi delle cancellerie sul volere degli elettori, che per la prima volta si sono espressi (o avrebbero dovuto esprimersi) sapendo a monte chi fossero i candidati presentati dai diversi schieramenti per la guida della Commissione (in prima linea per il Partito socialista europeo c'era il tedesco Martin Schulz, mentre i liberali avevano mandato avanti il fiammingo Guy Verhofstadt).  Che senso ha avuto fare quei nomi se ora basta una manovrina di palazzo vecchio stile per ribaltare tutto?

In ogni caso, stavolta i leader di governo degli Stati membri non avranno l'ultima parola: spetterà a loro il compito d'indicare il nome del nuovo presidente della Commissione, ma l'elezione finale dovrà passare per il voto del Parlamento europeo, il che renderà probabilmente ancora più difficoltoso il superamento degli interessi contrapposti.

Il problema fondamentale riguarda però le alternative. Se non Juncker, chi? Oltre a Cameron si oppongono alla nomina del Ppe l'ungherese Viktor Orban, lo svedese Fredrik Reinfeldt, l'olandese Mark Rutte e il finladese Jyrki Katainen. Nessuno di loro, è evidente, punta all'elezione di qualche più illuminato progressista. Al contrario, per questi signori il non plus ultra sarebbe un ometto scialbo e poco incline al perseguimento dell'ideale comunitario.

Il premier britannico, dal canto suo, accentua ogni giorno di più la propria attitudine antieuropea per esigenze di politica interna. Il governo di Londra deve farsi interprete del crescente sentimento di ostilità dell'elettorato nei confronti di Bruxelles se vuole sperare di porre un limite all'avanzata dell'Ukip, partito di estrema destra e acerrimo nemico dell'Ue, che alle elezioni ha registrato un vero e proprio boom (il suo leader, Nigel Farage, ha incontrato Beppe Grillo in vista di una possibile alleanza con M5S nel Parlamento europeo).

Fin qui, i nomi più accreditati al posto di Juncker sono tre: il polacco Tusk, il finlandese Katainen e l'irlandese Kenny, tutti più o meno esplicitamente auto-candidati. La settimana scorsa si è detto perfino che Renzi potrebbe cercare di entrare nella partita proponendo il nome di Enrico Letta, ma si tratta di un'eventualità assai remota.

Nonostante il premier italiano sia anche il segretario del partito più votato d'Europa e dal primo luglio inizi il semestre italiano di presidenza Ue, sulla strada di Letta ci sono almeno due ostacoli insormontabili: primo, il vertice della Commissione è tradizionalmente riservato a Paesi che non rientrano fra le maggiori potenze (il presidente uscente è il portoghese Josè Manuel Barroso); secondo, all'Italia è già stata concessa una casella internazionale d'importanza capitale come la presidenza della Banca centrale europea, in mano a Mario Draghi.

A prescindere dalle qualità personali e al grado d'indipendenza di un candidato alternativo a Juncker, è evidente che la scelta di un nome di compromesso dimostrerebbe ancora una volta quanto il potere europeo sia in mano a un'oligarchia. Dopo aver concesso agli elettori un potere decisionale, si sceglierebbe di sottrarglielo a giochi fatti, ora che la campagna elettorale è finita. Come a dire "abbiamo scherzato". Proprio quello che ci vuole per combattere l'antieuropeismo.


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