di Sara Nicoli

Giornalisti cinesi in lotta per la libertà di stampa accanto a giovani studenti ed intellettuali contro l'oscuramento, da parte del governo di Pechino, di Wikipedia, la più importante enciclopedia mondiale online. Il dilagare del web e l'oggettiva impossibilità di controllo da parte delle autorità delle informazioni che viaggiano velocissime online, sta lentamente sfaldando il proverbiale sistema di censura cinese, rendendo inutile ogni tentativo di oscuramento di notizie non gradite al regime. Dal 18 ottobre scorso, il sito web dell'enciclopedia è inaccessibile in parecchie provincie cinesi, compresa quella di Shangai. Agli utenti che provano a collegarsi compare un messaggio di errore che riferisce a non meglio precisati problemi di collegamento. Ironia della sorte, il 19 ottobre era stato pubblicato da Wikipedia il primo libro bianco sulla costruzione della democrazia politica in Cina. Un "passo" che, tuttavia, non ha fugato il sospetto che le autorità locali temessero più che altro la divulgazione degli oltre 12 milioni di articoli in cento lingue diverse presenti nell'enciclopedia condivisa, soprattutto quelli inerenti alle delicate questioni del Tibet e di Taiwan e ancor più per la ragione che Wiki è aperta a ogni contributo da ogni parte del mondo.

Non è la prima volta, tuttavia, che Wiki viene sabotata dalle autorità cinesi. Era già successo nel 2004, a causa di alcuni testi presenti on line di chiaro contenuto politico critico. Stavolta, però, la protesta sta montando in tutto il Paese, specie tra studenti ed intellettuali ai quali la censura dell'enciclopedia online fa riemergere prepotentemente ricordi ancora vividi dei carri armati dell'Esercito che sparano sulla folla in piazza Tiananmen. E le misure coercitive messe in campo dal governo non fanno altro che amplificare, com'è logico, il disagio del popolo e l'enorme popolarità del web e dei suoi contenuti. Che in quanto liberi, ampliabili e modificabili da chiunque, non possono che provocano sincero terrore nei in chi ha scarsa dimestichezza con la libertà.

Per sorvegliare l'informazione che circola in rete, il governo cinese ha impegnato circa 30 mila tecnici a tempo pieno, che grazie a programmi piuttosto sofisticati, riescono a mettere fuori uso interi siti in pochi secondi. Secondo l'università di Harvard, quello messo in atto dal governo cinese è "il più sofisticato sforzo nel mondo per controllare la rete". Nel sofware usato dal battaglione dei censori sono contenute mille parole considerate "sospette", pericolosissimi vocabili come "democrazia", "libertà", "sesso", "sciopero", "manifestazione", "religione", ma anche "Tibet libero" oppure "pornografia". Tutti campanelli d'allarme che fanno scattare i filtri di sorveglianza e il conseguente oscuramento. Tra le frasi che scatenano la tagliola della censura anche "figli di dirigenti di partito", appositamente inserita per evitare che la rete "sveli" i patrimoni che possiedono o i ruoli che svolgono all'interno della struttura i dirigenti del partito. La task force oscurantista cinese è stata soprannominata dagli internauti "la Grande Muraglia di fuoco", ma nonostante gli sforzi sta dimostrando di non essere in grado di controllare il web nella sua interezza.

La censura del regime cinese trema dunque sotto il dilagante piccone della rete, ma come una "letale" e contagiosissima influenza, l'odore di una possibile libertà di espressione sta coinvolgendo anche i giornalisti della carta stampata. Qualche settimana fa altri cinque importanti giornalisti si sono licenziati dal quotidiano "Notizie di Pechino" dopo che erano stati allontanati dal giornale tre loro colleghi considerati troppo ''audaci''. Capofila della rivolta era stato il caporedattore Yang Bin, spalleggiato da due collaboratori del giornale, Sun Xuedong e Li Duoyu. La loro colpa principale? Aver coperto, in modo "troppo indipendente", forse poco propagandistico, sia la vicenda di Dongzhou, il villaggio del sud dove almeno tre persone sono state uccise durante scontri con la polizia, che quella dell'inquinamento del fiume Songhua, provocato dalla fuoriuscita di materiale tossico da una fabbrica chimica nazionalizzata.

La notizia del loro licenziamento era rimbalzata in rete attraverso il sito Boxun.com, gestito da giornalisti autonomi. Ed è stata la stessa fonte a dare poi notizia degli altri cinque "portatori sani di libertà" che oggi sono passati al giornalismo digitale, trovando spazio su alcuni dei siti web più visitati dagli utenti della rete. I giornalisti dimissionari sono Cheng Feng, capo redattore della cronaca, Meng Bo, che curava la pagina dei commenti, i due editorialisti Chen Zihua e Li Lie e la vicedirettrice Li Doyu. Boxun ha sottolineato che Cheng e Meng sono passati al sito Sohu.com, mentre gli altri scriveranno su Tengxun.com. Tutti e cinque i transfughi di "Notizie di Pechino" hanno trovato il nuovo lavoro in modo autonomo, cioè senza attendere, come é costume in Cina, che gli venisse assegnato un posto dalle autorità politiche e per questo temono per la loro vita. Sui loro blog sono apparsi appelli a proseguire nella protesta contro la censura "anche se tutti noi dovessimo morire per difendere le nostre idee e il nostro lavoro". La società editrice di Notizie di Pechino e' a partecipazione mista pubblica e privata ed è questo insolito status giuridico in un'economia nazionalizzata ad aver probabilmente consentito la prima, clamorosa protesta che abbia mai interessato gli operatori dell' informazione in Cina.

In risposta al licenziamento dei primi tre "audaci" giornalisti, l'intera redazione di Notizie di Pechino ha scioperato per un giorno, costringendo la direzione a far uscire un giornale in versione ridotta. Succede regolarmente anche in Italia, dove comincia ad avere sempre più senso parlare di pericolo per la libertà di stampa, nonostante essa sia garantita dalla Costituzione. Eppure il tema pare, al momento, non appassionare più di tanto l'opinione pubblica.

La notizia dello sciopero di Notizie da Pechino era stata immediatamente ripresa da alcuni siti internet e dai blog degli intellettuali indipendenti. Pochi giorni dopo uno dei blog che aveva ospitato un'ampia discussione sullo sciopero - quello del giovane giornalista Zhao Jing, meglio conosciuto col suo nome di battaglia di Michael Anti - e' stato chiuso dal colosso americano Microsoft, che lo ospitava sul suo server. L'iniziativa della Microsoft - che è stata oggetto di pesanti critiche da parte dei gruppi umanitari americani - non è la prima, nè la più grave delle azioni intraprese contro gli oppositori del sistema dai grandi gruppi internazionali, ansiosi di sfruttare il mercato cinese e dunque nella necessità di mantenere buoni rapporti con il potere.

L'anno scorso la sua rivale Yahoo!, per accreditare la propria credibilità nei confronti del regime, ha infatti denunciato alla polizia cinese il giornalista Shi Tao, che aveva diffuso attraverso la rete il comunicato col quale le autorità cinesi avevano vietato ai mezzi di comunicazione di parlare dell'anniversario del massacro del 1989 di piazza Tiananmen. Shi e' stato condannato a dieci anni di prigione per aver divulgato segreti di Stato. Di lui, nella rete, non si trovano più notizie.

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