di Mario Lombardo

Nonostante le previsioni della vigilia siano state confermate nel risultato del voto di domenica per il rinnovo della metà dei seggi della camera alta del parlamento giapponese (“Dieta”), il successo della coalizione del premier conservatore Shinzo Abe non è apparso del tutto convincente, a conferma dello scetticismo di buona parte degli elettori per le politiche militariste e di libero mercato promesse dal redivivo leader del partito Liberal Democratico (LDP).

Abe, in ogni caso, è riuscito nell’obiettivo di conquistare la maggioranza assoluta anche nella Camera dei Consiglieri, mettendo fine al controllo di questo ramo del parlamento da parte dell’opposizione. L’LDP e il suo partner di governo - il partito buddista Nuovo Komeito - hanno così ottenuto 76 seggi sui 121 in palio domenica, i quali vanno ad aggiungersi ai 59 che le due formazioni già controllavano e che non erano interessati dal voto.

Il risultato non permetterà però all’ambizioso premier di contare sui due terzi dei seggi come auspicava, mettendo in dubbio perciò le sue possibilità di fare approvare le annunciate modifiche alla Costituzione del 1947 per indebolirne il carattere marcatamente pacifista.

Il mandato ottenuto da Abe, che fa seguito al trionfo dello scorso dicembre nel voto per la più importante camera bassa, non appare comunque solido come sembrano suggerire i risultati. Quasi la metà degli aventi diritto, infatti, non si è nemmeno presentata alle urne e l’affluenza ha fatto registrare quasi sette punti percentuali in meno rispetto al precedente appuntamento elettorale per questo ramo del parlamento nel 2010, quando sfiorò il 58%.

La sostanziale apatia e la sfiducia verso tutto l’establishment politico giapponese sono apparse evidenti anche dal tracollo del Partito Democratico (DPJ) di centro-sinistra, passato all’opposizione qualche mese fa dopo tre anni di delusioni e promesse mancate. Secondo i dati diffusi nella giornata di lunedì, il DPJ ha ottenuto appena una quindicina di seggi, facendo segnare la peggiore prestazione dalla sua nascita nel 1998. A beneficiare del voto di protesta e della seconda batosta incassata in sette mesi dal DPJ è stato soprattutto il Partito Comunista Giapponese (JCP), in grado di raccogliere seggi nelle prefetture di Tokyo, Osaka e Kyoto dopo oltre un decennio di digiuno.

Il DPJ ha infatti perso terreno in particolare tra la borghesia urbana, considerata la propria tradizionale base elettorale e ora invece sfiduciata a causa del rapido abbandono da parte del partito delle modeste politiche di spesa prospettate nel 2009 e del tentativo abortito di mettere in atto una politica estera più indipendente rispetto al tradizionale appiattimento sulla linea dettata dagli Stati Uniti dei precedenti governi giapponesi.

Abe, da parte sua, già nella serata di domenica ha ribadito la volontà di portare avanti le “riforme” promesse per “rivitalizzare l’economia”, sottolineando il supporto a suo dire mostrato dagli elettori per le politiche già avviate nei mesi scorsi.

Le cosiddette “Abenomics” hanno determinato nel corso del 2013 una certa accelerata dell’economia giapponese e un balzo consistente del mercato azionario, grazie soprattutto all’aggressiva politica monetaria della Banca Centrale che, sul modello del “quantitative easing” della Fed americana, sta inondando di liquidità il sistema finanziario. La conseguente svalutazione dello yen ha così reso più competitive le esportazioni nipponiche, contribuendo al momentaneo rinvigorimento dell’economia che, con ogni probabilità, ha favorito la coalizione di governo nel voto del fine settimana.

Oltre alla politica monetaria della Banca Centrale, le altre due “frecce” nell’arco di Shinzo Abe sono l’aumento della spesa per stimolare l’economia e quella che il quotidiano conservatore giapponese Yomiuri Shimbun ha definito lunedì come “una strategia di crescita per incoraggiare gli investimenti privati”, vale a dire, in primo luogo, lo smantellamento delle garanzie  del lavoro dipendente.

Quest’ultima “freccia” sembra essere quella che incontrerà le maggiori difficoltà ad andare a segno, vista l’impopolarità delle misure che comporta. Per questa ragione, il premier Abe è stato incoraggiato subito dopo la chiusura delle urne a procedere con le “riforme” promesse in questo ambito.

I leader del business giapponese, ad esempio, hanno fatto a gara nel complimentarsi con il primo ministro per il successo, definito senza riserve come la prova del consenso espresso dai giapponesi per le misure di “crescita” che dovranno essere implementate.

Oltre a rendere ancora più flessibile il mercato del lavoro, le “riforme” che le élite economico-finanziarie del Giappone si aspettano da Abe comprendono, tra l’altro, l’abbattimento dell’aliquota fiscale riservata alle grandi aziende, l’aumento della tassa sui consumi e massicci tagli alla spesa pubblica per ridurre un debito che supera il 200% del PIL del paese. Tutti questi temi, come è ovvio, sono stati toccati solo marginalmente nel corso della campagna elettorale.

Parallelamente a questo percorso in ambito economico, Abe intende perseguire anche un’agenda nazionalista e militarista che deve fare i conti allo stesso modo con una serie di incognite e ostacoli. Le provocazioni nei confronti della Cina sono state utilizzate in questi mesi per ingigantire la minaccia che la seconda economia del pianeta rappresenterebbe per Tokyo, così da giustificare l’impulso alla militarizzazione del paese, ma anche per sviare l’attenzione dei giapponesi dalle difficili decisioni economiche che si prospettano.

Visto lo scarso entusiasmo generato tra la popolazione per una revisione in senso militarista della Costituzione, con iniziative che dovrebbero tra l’altro consentire alle forze armate di colpire preventivamente presunte minacce alla sicurezza del paese, secondo molti analisti una strada simile potrebbe essere seguita dal governo Abe solo se l’economia dovesse essere in grado di generare benefici diffusi per la maggioranza dei giapponesi. Un tale scenario, peraltro, appare improbabile visti gli effetti negativi che avranno prevedibilmente le “riforme” di libero mercato volute dalla maggioranza conservatrice sulla gran parte dei giapponesi.

L’impronta aggressiva data da Abe alla politica estera del Giappone, infine, potrebbe incontrare più di un ostacolo anche per il fatto che essa viene vista con qualche sospetto a Washington. Gli Stati Uniti, infatti, pur favorendo un maggiore impegno militare di Tokyo a sostegno dei propri obiettivi imperialistici, considerano le rinnovate ambizioni da grande potenza dell’alleato asiatico anche come una minaccia alla strategia americana di contenimento della Cina basata sulla collaborazione dei governi amici in Estremo Oriente, poiché rischiano di complicare i rapporti con alcuni di questi paesi - a cominciare dalla Corea del Sud - tuttora segnati dalla brutale occupazione dei loro territori da parte del Giappone nella prima metà del secolo scorso.

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