di Michele Paris

Il moderato ottimismo che la settimana scorsa aveva segnato la vigilia dei colloqui di Baghdad sul nucleare iraniano ha lasciato spazio in fretta ad un nuovo deterioramento dei rapporti tra la Repubblica Islamica e l’Occidente. Le tensioni riemerse negli ultimi giorni indicano così un imminente fallimento dei negoziati, ancora una volta a causa principalmente dell’atteggiamento ambiguo e provocatorio tenuto dagli Stati Uniti e dai loro alleati.

Già nel corso del vertice tra l’Iran e i cosiddetti P5+1 (USA, Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina e Germania) nella capitale irachena le trattative erano giunte in prossimità del punto di rottura, per essere poi apparentemente salvate nel secondo giorno di discussioni, al termine del quale le parti coinvolte hanno finito per fissare un nuovo summit, in programma il 18 giugno a Mosca. Alla luce della posizione assunta dai P5+1, a molti è già apparso un successo l’essere riusciti a stabilire un’altra data per proseguire i colloqui.

Lo scontro tra le delegazioni presenti a Baghdad è avvenuto sulla proposta avanzata dalla responsabile della politica estera UE, Catherine Ashton, con la quale i P5+1 chiedono all’Iran, tra l’altro, lo stop all’arricchimento dell’uranio ad un livello del 20%, l’invio all’estero di quello già arricchito a questo livello e la chiusura dell’installazione nucleare di Fordow. Se pure da Teheran erano giunti segnali di disponibilità al compromesso anche sul congelamento dell’arricchimento dell’uranio al 20%, qualsiasi ipotesi di accordo è crollata di fronte ai modesti incentivi promessi in cambio dall’Occidente.

Come gesto di buona volontà, l’Iran si aspettava infatti un allentamento delle sanzioni già in atto e che colpiscono il proprio settore petrolifero, nonché la cancellazione di quelle adottate dall’Unione Europea che entreranno in vigore il primo luglio prossimo. Riguardo a Fordow, poi, su richiesta di Israele gli USA ne hanno chiesto la chiusura in quanto esso è un sito sotterraneo e quindi praticamente impossibile da distruggere con bombardamenti mirati. La pretesa occidentale comporta perciò il trasferimento degli equipaggiamenti situati in questa struttura in un sito in superficie, dove diventerebbero un facile bersaglio di un’eventuale incursione aerea americana o israeliana.

Comprensibilmente, la posizione dell’Iran si è irrigidita e qualche giorno più tardi il capo dell’Agenzia per l’Energia Atomica, Fereydoon Abbasi, ha affermato che il suo paese “arricchisce l’uranio in base ai propri bisogni [al 20%] senza chiederne il permesso a nessuno”. Perciò, “i negoziatori iraniani non si muoveranno dalle loro posizioni se la controparte continuerà a mantenere un simile atteggiamento”. Abbasi ha poi annunciato che l’Iran intende costruire due nuove centrali nucleari nel 2013.

Di conseguenza, da Teheran è stato rimesso in discussione anche l’accordo con l’AIEA per ispezionare il sito militare di Parchin che sembrava a portata di mano prima del vertice di Baghdad. In seguito alla visita a Teheran del direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), Yukiya Amano, un’intesa sembrava essere a portata di mano ma lo stesso Abbasi ha successivamente indicato la nuova posizione di Teheran, secondo la quale l’AIEA dovrà presentare prove concrete di presunte attività illegali a Parchin per ottenerne l’accesso. Le accuse dell’Agenzia dell’ONU si basano su discutibili e datati rapporti di intelligence occidentali e israeliani.

Il cambiamento dell’atmosfera attorno alla questione del nucleare iraniano nell’arco di pochi giorni rivela come i P5+1, con gli Stati Uniti in prima fila, intendano strumentalizzare i colloqui in corso per esercitare altre pressioni su Teheran e inviare ultimatum inaccettabili ai vertici della Repubblica Islamica. A dimostrazione di ciò, vi è il fatto che i rappresentanti dei governi occidentali a Baghdad hanno per l’ennesima volta deciso di ignorare le aperture e la disponibilità al dialogo mostrata dagli iraniani, i quali durante il vertice avevano anche presentato una loro proposta che comprendeva, oltre al nucleare, altre questioni relative alla sicurezza in Medio Oriente.

La linea dura di Washington e il sostanziale fallimento dei negoziati va dunque al cuore della crisi del nucleare iraniano, in buona parte fabbricata dall’Occidente e da Israele. Il nodo cruciale che impedisce una risoluzione pacifica della questione è stato messo in luce chiaramente qualche giorno fa da Flynt e Hillary Leverett sul loro blog Race for Iran.

I due ex membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti hanno scritto che “la determinazione a dominare la regione mediorientale distorce gravemente l’approccio diplomatico dell’amministrazione Obama, dal momento che essa utilizza i negoziati sul nucleare con Teheran per convincere la Repubblica Islamica a cedere alle richieste americane”, mentre i colloqui dovrebbero piuttosto essere “uno strumento importante per giungere al riallineamento delle relazioni USA-Iran”.

In altre parole, per Washington la questione del nucleare iraniano è semplicemente un pretesto per fare pressioni su Teheran con l’obiettivo di spingere l’Iran ad allinearsi agli interessi americani in Medio Oriente o, vista l’impraticabilità di questa opzione, per giungere ad un cambio di regime.

Infatti, aggiungono i Leverett, “non esistono argomenti seri per non riconoscere il diritto dell’Iran all’arricchimento dell’uranio”. L’amministrazione Obama, perciò, non vuole un accordo poiché ciò comporterebbe il riconoscimento della “Repubblica Islamica come un attore importante con legittimi interessi nazionali”, limitando l’espansione dell’egemonia USA nella regione.

La relativa disponibilità mostrata dagli Stati Uniti in queste settimane per tenere in piedi un tavolo di trattative con l’Iran è dovuta a svariati fattori secondo i Leverett, come la necessità di contenere l’aumento del costo del petrolio in un periodo di crisi economica e di frenare le tendenze guerrafondaie di Israele che potrebbero mettere a repentaglio la rielezione di Obama a novembre. Questa decisione, tuttavia, è di natura puramente tattica e “non comporta alcuna riconsiderazione della strategia generale della Casa Bianca”.

L’atteggiamento di Washington, in ogni caso, oltre a creare un nuovo scontro con i rappresentanti iraniani che hanno immediatamente smascherato la doppiezza americana, rischia di creare più di un malumore anche a Tel Aviv, da dove si spinge insistentemente per un’azione militare.

A confermalo è stato ad esempio il commento sibillino del vice-primo ministro israeliano, Moshe Yaalon, durante una recente intervista rilasciata alla radio dell’esercito. Dopo aver ribadito che i colloqui di Baghdad sono serviti solo a dare più tempo all’Iran per “perseguire il suo progetto nucleare”, Yaalon ha aggiunto che, “con dispiacere, non vedo nessun senso di urgenza e forse è addirittura nell’interesse di alcuni paesi occidentali prendere tempo” attraverso i negoziati.

Le attività per destabilizzare l’Iran e per colpire il suo programma nucleare, intanto, non sembrano conoscere sosta. Lunedì, infatti, è apparsa sui giornali di mezzo mondo la notizia della scoperta di un nuovo virus devastante che avrebbe colpito i sistemi informatici iraniani. Dopo Stuxnet, che nel 2010 fece seri danni agli impianti iraniani, ora è la volta di Flame, il quale sarebbe di gran lunga più distruttivo del suo predecessore. Pur senza conferme né smentite, è opinione condivisa che tali virus siano stati creati dagli Stati Uniti o da Israele.

Ad aggiungersi alle pressioni su Teheran è arrivata infine mercoledì anche la rivelazione da parte dell’AIEA dell’esistenza di nuove immagini satellitari che evidenzierebbero come gli iraniani stiano ripulendo il sito militare di Parchin, in modo da rimuovere ogni prova di test nucleari in vista dell’arrivo degli ispettori internazionali.

Le accuse sono state immediatamente respinte dal rappresentante dell’Iran presso l’AIEA, Ali Asghar Soltanieh, il quale le ha definite “senza fondamento”. I presunti esperimenti su detonazioni di armi nucleari, secondo rapporti di intelligence occidentali e israeliani, sarebbero stati condotti a Parchin nel 2000. Oltre al fatto che gli iraniani avrebbero stranamente atteso dodici anni per ripulire il sito, gli esperti avvertono che difficilmente le tracce di uranio potrebbero essere rimosse.

A sostenerlo, tra gli altri, è stato l’ex membro dell’AIEA Robert Kelly, il quale ha affermato alla Reuters che “se l’Iran sta ripulendo l’edificio e gli equipaggiamenti all’aperto, nel caso ci fosse la presenza di uranio, lasciare che l’acqua contaminata scorra all’esterno significa che gli ispettori dell’AIEA avranno il 100% di probabilità di trovarne traccia”.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy