di Fabrizio Casari

La Conferenza di Roma sul Libano segna il primo segnale di risveglio della diplomazia internazionale alle prese con la crisi mediorientale. Per ora la pressione diplomatica statunitense è riuscita, in qualche modo, ad evitare la condanna internazionale d'Israele. Sia all'Onu, dove il veto di Washington è risultato decisivo per la mancata risoluzione di condanna dell'invasione del Libano, come al G8 di San Pietroburgo, dove la formulazione che prevede prima la liberazione dei soldati prigionieri e poi, solo poi, il "cessate il fuoco" richiesto dal governo di Beirut, l'Amministrazione Bush ha dimostrato una volta di più il suo legame indissolubile con Tel Aviv. Ad essere precisi, non si tratta di un legame fondato solo sulla comune appartenenza al blocco occidentale; si tratta piuttosto della condivisione completa delle operazioni israeliane sulla base di due obiettivi precisi: la guerra contro le formazioni politico-militari arabe, qualunque esse siano e ovunque collocate e, elemento a corollario, la riconquista israeliana del Libano. Il fatto che il Libano sia martoriato dalle bombe israeliane senza avere nessuna responsabilità diretta nell'azione di guerra degli Hezbollah, che è servita da utilissimo casus belli per un attacco programmato da diverso tempo, non ha smosso nulla nella considerazione statunitense. Il fatto che il Libano sia un paese sovrano con un governo legittimamente eletto non ha prodotto nemmeno un fugace sguardo ai codici del diritto internazionale. Ancora, il fatto che Hezbollah sia insediata nel sud del paese ma che il paese stesso sia bombardato ovunque, non porta a riflettere sulla strumentalità della posizione israeliana, che dimostra come la devastazione del paese e la sua crisi politica definitiva siano il primo passo verso la sua delegittimazione, cosa che precede il suo controllo totale tramite occupazione militare israeliana.

Perché tanto a Beirut come a Tel Aviv, a Washington come a Bruxelles, è chiaro a tutti che il Libano sarà di nuovo e a lungo sotto occupazione militare israeliana, che allungherà e allargherà i suoi confini sostanziali sotto forma di ampliamento della sua "fascia di sicurezza". Quest'ultimo aspetto risulta per Washington il prezzo da pagare alle esigenze israeliane, che considerano il paese dei cedri come una potenziale nemico da trasformare, appunto, in una sostanziale fascia di sicurezza. La sua invasione, che nelle ottimistiche previsioni israeliane dovrebbe portare al controllo assoluto del paese, è parte di una strategia regionale che individua ogni paese arabo confinante come un elemento del puzzle che determina o no la sicurezza dello stato ebraico.

Ma questa volta, in assenza delle opposizioni internazionali e con l'Europa affetta come la solito da nanismo politico (solo la Francia - e senza molta convinzione - ha ritenuto di doversi pronunciare contro l'invasione e solo Roma ha sviluppato una iniziativa politico-diplomatica di valore) è dall'interno degli Stati Uniti che si levano le voci di dissenso dalla condotta dell'Amministrazione Bush. Non sono i "liberal" o i reduci di altre cause o altre guerre, ma una parte consistente dell'establishment. In particolare, Henry Kissinger e Zbigniew Brezinski, due personaggi cioè che - pur diversissimi tra loro, sia detto ad onore di Brezinski - hanno certamente dimestichezza con la politica internazionale e con la regione mediorientale in particolare e che, soprattutto, rappresentano interessi e aree della politica statunitense certo non marginali.

Proprio da Brezinski sono venuti gli attacchi più duri. L'ex Consigliere per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, ha accusato la Casa Bianca di essere "appiattita" su Tel Aviv, di non considerare le conseguenze dell'iniziativa israeliana sui paesi arabi e, cosa ancor più grave, "di non cogliere come l'invasione israeliana rischi di riaccendere l'ingovernabilità assoluta in tutta la regione", mandando così al macero la sicurezza e proponendo ai paesi arabi un motivo per riaprire la contrapposizione ad Israele. Lo stesso Kissinger, non certo sospettabile di tendenze democratiche, si è detto "colpito dalla assoluta mancanza di strategia politico-diplomatica di Washington nella regione" ricordando, non senza una punta di acidità, che se un tempo erano gli Stati Uniti a dirigere Israele, oggi pare avvenire il contrario. Entrambi accusano insomma Bush di mettere in crisi gli sforzi politico-diplomatici post '89 che hanno visto la frantumazione del "Fronte del rifiuto" e lo spostamento di Egitto e Giordania in funzione filo-occidentale. Entrambi gli ex diplomatici tendono comunque a "salvare" Condoleeza Rice, che definiscono stretta nella morsa dei neocon ad alto tasso d'integralismo.

La vecchia scuola della diplomazia Usa, dunque, attacca frontalmente i "messianici" insediatisi alla Casa Bianca, ai quali imputano anche gli evidenti insuccessi in Iraq e Afghanistan. La risposta dei falchi integralisti è arrivata tramite Paul Wolfowitz, "stratega" neocon ora approdato alla Banca Mondiale, che nel ribadire l'ossessione islamofobica dell'Amministrazione, ha rilanciato sostenendo le ragioni di Tel Aviv e auspicando un ulteriore impegno statunitense, includendo la Siria e l'Iran nella strategia di "guerra globale al terrorismo".

Ma le critiche sembrano aver colto nel segno, dal momento che la stessa Rice, pur ribadendo che il "cessate il fuoco" richiesto da Kofi Annan non è ancora all'ordine del giorno, si è detta impegnata in prima persona a dialogare con i Paesi arabi, tentando senza dirlo apertamente, di costruire un "ombrello" sunnita che si schieri contro Hezbollah e Iran. Ma non è così semplice, dal momento che proprio i sunniti in Iraq danno del filo da torcere alle truppe d'occupazione a stelle e strisce. Le critiche di Brezinski e Kissinger, peraltro, vengono accompagnate dai sondaggi della Cnn, dai quali risulta che il 64% degli americani sono contrari ad un impegno diretto di Washington nel conflitto, anche solo in veste di caschi blu dell'Onu. La conferenza di Roma, indiscutibile successo della diplomazia italiana, sarà un ulteriore banco di prova per verificare quanto le critiche di Brezinski siano condivise anche fuori degli Usa.

Il fatto è che alla metà del secondo ed ultimo mandato della presidenza Bush, si saldano la sfiducia dei cittadini da un lato e le preoccupazioni dall'altro di una parte importante dell'establishment Usa, che comincia a tirare le somme sul ruolo statunitense nella scena internazionale e a farsi amari conti in relazione ai guasti prodotti da sei anni di tsunami della politica made in Usa.

Nonostante i proclami neocon, gli Stati Uniti si trovano infatti impantanati in una guerra senza uscita e del tutto priva di speranze di vittoria come quella in Iraq; di una guerra già priva di sbocchi come quella in Afghanistan; di un ruolo in Medio Oriente che, oltre ad aver ridotto Washington ad una sorta di comitato di appoggio a Tel Aviv, ha raggiunto il grado di credibilità più basso dal 1948 ad oggi nella regione. Se a questo si aggiungono il difficile rapporto con una parte dell'Europa e la crisi di rappresentanza politica in America latina, il quadro delle macerie che Bush lascia in eredità alla prossima Amministrazione comincia ad evidenziarsi in tutta la sua gravità. La crisi del ruolo strategico statunitense, cominciata in Iraq, rischia d'intensificarsi proprio in quel Medio Oriente che, dagli accordi di Camp David fino alla road map, aveva segnato il ruolo attivo degli Usa nella regione. Quando ancora Tel Aviv ubbidiva a Washington.

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