di Mario Braconi

Mentre vengono pubblicati i loro nomi, i primi 477 prigionieri palestinesi che verranno rilasciati martedì come contropartita per la liberazione del caporale Gilad Shalit sono stati trasferiti dall’amministrazione penitenziaria israeliana in due centri per l’espletamento delle formalità di rito. Continua a salire la tensione tanto in Israele (dove secondo Reuters quasi l’80% degli intervistati approva lo scambio), che presso le famiglie di quei palestinesi (di Al-Fatah) esclusi dall’accordo. Secondo la legge israeliana i nomi dei detenuti devono essere pubblicati prima del loro rilascio, al fine di consentire ai terzi di opporsi alla grazia concessa dallo stato di Israele, ovvero alla premessa giuridica del loro ritorno in libertà (anche se per una quarantina di loro per la verità è previsto l’esilio come condizione).

Comprensibilmente, molte delle famiglie di vittime di attentati di cui lo stato di Israele ha riconosciuto colpevoli gli uomini e le donne che domani verranno rimessi in libertà hanno fatto opposizione; secondo Reuters sono quattro le petizioni presentate alla Suprema Corte dalle varie associazioni di vittime, anche se quasi sicuramente non se ne farà nulla. Quello dello scambio dei mille e più palestinesi contro Gilad é un passaggio politico ed è inevitabile che finisca per gettare del sale su ferite ancora aperte: la pubblicazione ai fini di opposizione è un rituale vuoto quanto ipocrita.

C’è perfino da domandarsi se la procedura che prevede la pubblicazione di questi nominativi, pur ineccepibile dal punto di vista delle regole di una democrazia, sia auspicabile da un punto di vista politico. E’ evidente, infatti, che in casi come questo alcune regole dello stato di diritto vengono sospese come premessa ad un dividendo politico ritenuto di maggiore importanza: nemmeno il più ingenuo degli osservatori arriverebbe a dire che l’obiettivo qui sia la ripresa di colloqui di pace, perché all’ordine del giorno è piuttosto il tentativo di Israele di spezzare l’isolamento in cui è stato trascinato dai suoi politici, nonché, internamente, ribadire la sacralità della vita del soldato israeliano, pietra angolare della sua retorica propagandistica. Hamas tenta invece di guadagnare credibilità con gli altri player arabi della zona, come interlocutore in grado di alzare la posta in modo impensabile.

Proprio perché è in gioco un obiettivo più alto, ha un senso decidere di “dimenticare” il caso della ragazza ventiquattrenne che nel 2001, a suon di promesse di sesso su una chat room, ha attirato un ragazzino di 16 anni nel luogo dove è stato assassinato a causa della sua ingenuità e della sua appartenenza ad un popolo “nemico”. O di restituire la libertà a un uomo che nel 2000, oltre ad aver preso parte al linciaggio di due soldati “nemici” (con quale ruolo non è chiaro), ha voluto esser simbolicamente legato a quell’osceno episodio: una foto infatti lo ritrae mentre si affaccia ad una finestra mostrando agli astanti le mani rosse del sangue delle vittime.

Mentre cresce la rabbia delle famiglie degli membri di Al Fatah non poi così casualmente dimenticati da Hamas al momento di stilare la sua lista dei desiderata ad Israele, sui quotidiani israeliani i parenti di questa o quella vittima danno sfogo alla loro comprensibile frustrazione. Su Haaretz Avika Eldar scrive di un progetto di legge cui stanno lavorando i politici israeliani per dimostrare alla parte più anti-palestinese della popolazione che i loro timori e la loro delusione vengono tenuti nella dovuta considerazione. Si tratta di un progetto di legge che dovrebbe regolamentare rigidamente i casi di scambio di prigionieri con i palestinesi.

Secondo quanto riferisce Eldar, il riferimento dei politici israeliani sono le conclusioni del cosiddetto Comitato Shamgar del 2008, finora mai pubblicate: anche se, secondo le fonti non ufficiali del giornalista israeliano, una delle raccomandazioni del comitato prevedrebbe un “tasso di scambio” di uno ad uno (un israeliano contro un palestinese), secondo la bozza esso dovrebbe essere funzione “delle circostanze dell’incidente”. Cosa significhi questo non è chiaro. Come la mettiamo, scrive sarcasticamente Eldar, se un nostro elicottero in avaria finisce per atterrare al centro di Gaza? “Diamo [ai Palestinesi] due “con le mani sporche di sangue” spiegando che comunque il governo non ci permette di dar via più di 50 mezze tacche di Hamas?” E a proposito, siamo sicuri che mani di quel pilota che bombarda una zona abitata dove può far fuori decine di bambini, siano poi così pulite?

Se non esiste la possibilità di soccorrere gli israeliani in sicurezza, la nouvelle vague prossima ventura vorrebbe che le negoziazioni venissero congelate per un paio di mesi: peccato che, come ricorda Eldar, l’esitazione del governo in questi casi non conduca a “sconti”. Anzi, corrode la fiducia dell’opinione pubblica nel tanto sbandierato amore del governo per i suoi soldati; quando poi alla fine si arriva ad un accordo, è quasi inevitabile che esso finisca per apparire quello che è, ovvero una “capitolazione all’opinione pubblica più che una scelta razionale”.

Il caso Shalit non è servito dunque proprio a niente? Sembra proprio che i politici israeliani facciano di tutto per eludere l’elefante nella stanza, che è l’occupazione: il vero nodo che continuerà a mietere vittime, mentre si continuerà a rapire soldati da una parte e ad assassinare (in modo “mirato”?) i sospetti criminali dall’altra.

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