di Mario Braconi

In corrispondenza del sessantaduesimo anniversario della dichiarazione d’indipendenza di Israele (14 maggio 1948), la stampa anglosassone ha dimostrato un insistente interesse per la storia di Lifta, un villaggio ad una decina di chilometri a nord-ovest di Gerusalemme. Ha aperto le danze un pezzo del 7 aprile scorso di Edmund Sanders sul Los Angeles Times, seguito da un puntuto commento della scrittrice, accademica ed attivista di origine palestinese Ghada Karmi, ospitato sulle colonne dello stesso giornale. Seguono Catrina Stewart su The Independent (30 aprile) e Harriet Sherwood sul Guardian, il 29 maggio.

E’ una brutta storia di speculazione edilizia a far accendere i riflettori sul villaggio abbandonato tra il 1947 e il 1948 che, nei suoi tempi di massimo splendore, contava tra i duemila e i tremila abitanti. A gennaio di quest’anno il catasto israeliano ha infatti annunciato la sua intenzione di vendere a privati porzioni del terreno su cui sorgeva Lifta (cui è stato attribuito un nome ebraico nuovo di zecca, Mei Naftolah): presto, al posto delle vestigia del paese, potrebbero sorgere 200 abitazioni residenziali, un numero imprecisato di negozi “chic”, un albergo, un museo ed una sinagoga.

Oltre cinquanta dei suoi edifici originali in pietra con finestre ad arco e graziosi balconi sono ancora in piedi; per motivi non del tutto chiari, sono sfuggiti all’obliterazione della memoria il vecchio cimitero e la pressa da olio. Tutto il resto, è andato perduto: scomparsi i 1.200 ettari di terreno con gli alberi di albicocco, fico, olivo, mandorlo, susino e melograno, e i campi a spinaci, cavolfiori, piselli e fagioli. Al loro posto, edifici istituzionali israeliani: la Corte Suprema, la Knesset e l’Università. Sparsi tra il West Bank, Giordania, e Gerusalemme Est, invece, i circa tremila arabi che vi abitavano, un tempo abili ricamatori.

A differenza di quanto è accaduto ad altri ex villaggi arabi, dopo il 1948 Lifta non è stata “riconvertita” in agglomerato ebraico: si può invece dire che è un villaggio fantasma, oggi più che altro meta di coppiette clandestine e di tossici senza tetto. Per ironia della sorte, oggi ad usufruire delle terme al centro del paese sono solo alcuni giovani ultra-ortodossi: una piccola provocazione che è come sale su una ferita per persone come Yacoub Odeh, che ai tempi dell’evacuazione forzata del paese aveva solo otto anni.

La sua memoria è marchiata a fuoco da quella sera del 1948 quando, per sfuggire agli attacchi ebraici, fu costretto ad abbandonare la sua casa assieme alla famiglia. Come molti decine di migliaia di arabi, anche gli Odeh se ne andarono portando con sé solo la chiave di casa, inconsapevoli che non vi avrebbero più fatto ritorno.

In realtà, la situazione a Lifta era molto tesa già alla fine del 1947: secondo lo storico Ilan Pappe, a dicembre di quell’anno membri della Haganah e della Stern Gang assassinarono 6 abitanti di Lifta, ferendone altri sette, nel corso di un attacco condotto per rappresaglia (sembra infatti che ci fosse tra gli abitanti di Lifta chi avvisava la resistenza araba della partenza dei convogli ebraici da Tel Aviv). Yacoub si unì alla resistenza anti-ebraica, ma venne arrestato e passò ben diciassette anni in carcere.

I genitori di Yacoub fuggirono a Gerusalemme Est, ai tempi controllata dalla Giordania. Quando Israele la conquistò, nel 1967, a Yacoub fu concesso di visitare alla sua casa, che, per un certo periodo, aveva ospitato immigrati ebrei yemeniti e iracheni. Grazie ad una legge del 1950, però, la casa di Yacoub Odeh, come quella di migliaia di altri arabi “invitati” ad andarsene, era stata requisita dallo Stato di Israele, cosa che gli impediva di prenderne possesso, anche se era vuota.

Molte ONG israeliane che si occupano di conservazione storica sono unite agli ex residenti di Lifta per bloccare il progetto del Governo. Il fratello di Yacoub Odeh, Zacharias, direttore della Lifta Society, che si occupa di tutelare i diritti degli abitanti del villaggio e di mantenere vivo il ricordo delle sofferenze che essi hanno dovuto patire, la mette così: “Questa faccenda riguarda la nostra memoria, la nostra tradizione, la nostra cultura. Molti di noi hanno ancora titolo legale alle proprie case. Anche se non siamo autorizzati a tornarci a vivere, tale diritto dovrebbe essere preservato”.

Il caso sorto attorno a Lifta tocca un nervo scoperto della società e della cultura israeliane: come nota Edmund Sanders sul LA Times, la città fantasma di Lifta, con le sue costruzioni che si ergono in mezzo alla vegetazione, rappresenta “l’incarnazione di una delle questioni più urticanti nei colloqui di pace del Medio Oriente: i Palestinesi hanno o meno diritto a tornare nelle loro case attualmente all’interno del territorio israeliano? E, se sì, quali sarebbero le conseguenze del riconoscimento di questo diritto sulla futura esistenza di Israele in quanto stato ebraico?”.

Benché una soluzione a questo immane problema non sia a portata di mano, non si può non concordare sul fatto che Lifta debba rimanere così come è (e che per inciso sarebbe cosa buona impedire le provocazioni degli ultraortodossi, come il bagno nelle terme). A rappresentare “un monumento fisico all’ingiustizia e alla sopravvivenza”, come sostiene la cattedratica palestinese naturalizzata britannica Ghada Karmi, anche lei cacciata da Lifta quando era solo una bambina.

La questione sollevata dal caso di Lifta è un emblema di quanto si sia rivelata errata la profezia di Ben Gurion, secondo cui “i vecchi sarebbero morti e i giovani avrebbero dimenticato” la nabka (la catastrofe della cacciata di oltre 700.000 arabi): Lifta dimostra che i vecchi ancora ricordano, così come è evidente che milioni di giovani mai usciti dai campi profughi dove sono stati ricollocati i loro genitori non possono che continuare a ricordare.

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