di Eugenio Roscini Vitali

Alle 05:45 (03:45 GMT) del 22 febbraio 2011, due navi della marina militare iraniana iniziano il transito attraverso il Canale di Suez, autorizzate al passaggio dalle autorità egiziane in base alla Convenzione di Costantinopoli del 29 ottobre 1888, accordo che assicura lo statuto internazionale del Canale stesso e la sua apertura alle navi di tutte le nazioni, senza discriminazioni, in tempo di guerra come in tempo di pace. Alle 15:30 (13:30 GMT) dello stesso giorno la fregata Alvand FFG-71 e la nave da rifornimento Kharg AORH-431 entrano nel Mediterraneo, in rotta dal porto arabo di Jedda a quello libanese di Latakia, 100 chilomentri a nord di Tartus, sito di manutenzione della Marina militare russa destinato a diventare entro il 2017 la nuova sede della Flotta del Mar Nero, attualmente ancorata a Sebastopoli, in Crimea.

L’operazione, annunciata nel gennaio scorso dall’ammiraglio Gholam-Reza Khadem Bigham, vice comandante della Marina Militare iraniana, rientra in un programma di esercitazioni per la raccolta d’informazioni d’intelligence che dovrebbe durare alcuni mesi e alla quale potrebbero partecipare altre due unità ed un sottomarino.

L’arrivo a Latakia delle due unità iraniane, registrato il 24 febbraio pomeriggio, non è solo un fatto estemporaneo; piuttosto coincide perfettamente con quello che potrebbe essere definito il “nuovo corso mediorientale dell’Iran”. Il 25 febbraio, a bordo della nave Kharg, il comandante della Marina iraniana, l’Ammiraglio Habibollah Sayyari, e il suo omologo siriano, Generale Taleb al-Barri, hanno infatti firmato un protocollo bilaterale per un programma congiunto di cooperazione militare che prevede la realizzazione di una base navale iraniana permanete in Siria, la prima nel vicino Medio Oriente e a soli 287 chilometri da Nahariya, città israeliana che si affaccia sul Mar Mediterraneo e che sorge poco a sud della frontiera libanese.

Prima di diventare il nuovo canale di rifornimento per le armi destinate alla Siria e ad Hezbollah (questa è l’ipotesi sostenuta da gran parte degli analisti), il porto di Latakia dovrà comunque essere ampliato e dotato di nuovi impianti e strutture logistiche, adeguato alla cantieristica per la manutenzione delle navi da guerra iraniane a ai sistemi di difesa antiaerea.

In realtà la Alvand FFG-71 e Kharg AORH-431 hanno atteso qualche giorno prima di poter attraversare i 190 chilometri del Canale di Suez, “occupato” dal passaggio di una squadra navale americana composta dalla portaerei USS Enterprise (CVN 65), dall’incrociatore lancia missili USS Leyte Gulf (CG 55) e dalla nave per approvvigionamenti USNS Arctic (T-AOE 8), in rotta verso il Corno d’Africa. Dal punto di vista militare il “faccia a faccia” tra le due piccole flotte non avrebbe comunque destato un’effettiva preoccupazione: i rapporti di forza e i precedenti parlano chiaro.

Durante l’operazione Praying Mantis (Mantide Religiosa), azione militare combattuta nel Golfo Persico il 18 aprile 1988 dalle forze navali americane come rappresaglia al danneggiamento dell’incrociatore USS Samuel B. Roberts, incappato in una mina posata dalla Marina iraniana, la fregata Sahand, nave della stessa classe dell’Alvand, fu identificata e centrata dai missili sganciati da due A-6E Intruder della squadriglia VA-95 “Green Lizards”, ed affondata da un Harpoon lanciato dalla USS Joseph Strauss (DDG-16).

Per Tel Aviv la presenza militare iraniana nel Mediterraneo non rappresenta solo un atto politico dimostrativo; la sfida alla comunità internazionale nasconderebbe infatti un espediente per aggirare le misure restrittive imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che vietano a Teheran la vendita di armi ad Hezbollah ed è comunque un elemento di destabilizzazione che alimenta l’azione dell’estremismo radicale palestinese.

Secondo fonti anonime vicine al governo israeliano, le due navi avrebbero a bordo armi ad alta tecnologia: razzi, sistemi anticarro, fucili d’assalto, munizioni e visori notturni; le informazioni, diffuse sul sito web del quotidiano Màariv, confermano l’ipotesi secondo cui il movimento sciita libanese si starebbe preparando ad affrontare una nuova guerra contro lo Stato ebraico. E’ in quest’ottica che il governo israeliano ha congelato il ritiro delle proprie truppe dalla zona settentrionale di Ghajar, il villaggio siriano occupato nel 1967 e ancora oggi al centro di un’annosa contesa tra Beirut, Damasco e Tel Aviv.

Il timore di riconsegnare al Libano un’area a ridosso del confine era già aumentato in seguito alla nomina del nuovo premier libanese Najib Mikati, miliardario di origine saudita sostenuto da Hezbollah che lo scorso 16 febbraio aveva minacciato di occupare la Galilea in caso di attacco israeliano.

Anche se indirettamente, e con qualche giorno di ritardo, i primi effetti l’arrivo nel Mediterraneo delle due navi da guerra iraniane si sono fatti sentire anche nel Neveg occidentale: alle 21:40 dello scorso 24 febbraio due missili BM-21 (Grad), lanciati dalla Striscia di Gaza, hanno centrato le città israeliane di Beersheba e Netivot, un attacco rivendicata dalle brigate Abu Ali Mustafa, ala militare del Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), che non ha causato vittime anche se si sono registrati danni ad un’abitazione civile e ad alcune auto. Dalla fine dell’operazione Piombo Fuso è la prima volta che i palestinesi utilizzano razzi a media gittata con l’intento di colpire un centro abitato di grandi dimensioni e la possibilità che questo si ripeta preoccupa non poco le autorità israeliane.

La giornata era iniziata all’insegna della violenza: nelle prime ore del mattino i miliziani avevano sparato due colpi di mortaio contro una pattuglia israeliana che stava operando nei pressi del valico di Karni e un tank delle Forze di Difesa aveva risposto al fuoco colpendo un commando delle brigate al-Quds  posizionato ad ovest di Khan Younes. Nello scontro erano rimati feriti 11 palestinesi ed era stata distrutta la postazione da cui era partito l’attacco.

I miliziani avevano poi sparato tre granate contro il kibbutz di Nahal Oz, situato vicino alla frontiera con Gaza, e intorno a mezzanotte, come ritorsione all’attacco contro Beersheba e Netivot, l’aviazione israeliana aveva bombardato il quartiere di az-Zaytoun, a sud-est di Gaza City, con un missile che aveva centrato un’automobile e ferito i due occupanti.

Dall’inizio dell’anno sono più di venti i Qassam e le granate che hanno colpito il Negev occidentale, quasi tutti caduti in aree disabitate o vicino ad obiettivi militari; i due Grad da 122 mm esplosi il 24 febbraio scorso a Beersheba e Netivot destano però particolare preoccupazione, soprattutto negli abitanti della zona e in chi crede che Israele non sia ancora in grado difendere gli oltre 900 mila israeliani che vivono a non più di 70 chilometri dalla Striscia di Gaza.

Nel 2008 i missili palestinesi erano riusciti ad arrivare fino Kiryat Gat, Kiryat Malakhi, Gedera e Yaven, 30 chilometri a sud di Tel Aviv, ed è per questo che il ministro della Difesa, Ehud Barak, sta spingendo affinché il sistema d’arma antimissile Iron Dome, pensato come contromisura alla minaccia dei razzi Grad e Katyusha e ai proietti di artiglieria da 155 mm, diventi operativo entro le prossime settimane. 

 

 

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