di Michele Paris

Da qualche giorno ad Haiti ha preso il via ufficialmente la campagna elettorale per il secondo turno delle elezioni che il 20 marzo prossimo decreteranno il nuovo presidente. Il ballottaggio che andrà in scena sulla disastrata isola caraibica si annuncia non privo di insidie e giunge dopo un primo turno funestato da diffuse irregolarità e disertato in massa dalla popolazione locale.

La selezione del successore dell’attuale presidente, René Préval, era iniziata lo scorso 28 novembre tra l’indifferenza generale e immediate accuse di brogli. Secondo i risultati preliminari, i candidati che avevano ottenuto i maggiori consensi risultavano essere la ex first lady di Haiti, Mirlande Manigat (31,4 %), il favorito del presidente in carica, Jude Célestin (22,5 %), e il popolare cantante di “kompa” Michel Martelly (21,8 %), più noto con il nome d’arte di “Sweet Micky”.

I primi risultati avevano suscitato le immediate proteste dei sostenitori di Martelly, così che, tra le polemiche, il secondo turno ha subito svariati rinvii. In seguito alle pressioni americane e ad una controversa indagine condotta dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), la comunità internazionale ha sostanzialmente finito col riconoscere i presunti brogli. La Commissione Elettorale Provvisoria haitiana ha perciò certificato il secondo posto di Michel Martelly, squalificando, di fatto, il candidato proposto dal presidente Préval.

Sia quest’ultimo che lo stesso Célestin hanno reagito duramente alla sentenza della commissione elettorale, accusandola di aver derubato il loro partito di una possibile vittoria nelle presidenziali. I sospetti sono aumentati quando è stato reso noto che quattro degli otto membri della commissione si sono rifiutati di certificare il risultato del voto, privando la decisione finale della maggioranza richiesta dalla legge per qualsiasi deliberazione.

Dopo le resistenze iniziali, Préval e Célestin hanno però ceduto, soprattutto in seguito alle raccomandazioni espresse dal Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, in visita a Port-au-Prince il primo febbraio scorso. L’ordine di Washington è stato insomma quello di abbandonare ogni rivendicazione e di appoggiare le decisioni dell’OSA e della Commissione Elettorale Provvisoria. Gli Stati Uniti avevano infatti deciso di respingere una proposta di compromesso per un ballottaggio con tre candidati, mentre hanno concesso a Préval soltanto di prolungare fino al 14 maggio il suo mandato - scaduto il 7 febbraio - così da proclamare ufficialmente il successore senza lasciare pericolosi vuoti di potere.

Tutte queste manovre non sono altro che il risultato di un’elezione condotta tra il disinteresse della gran parte degli haitiani, ancora costretti a fare i conti con le conseguenze del terremoto del gennaio 2010. A ciò va aggiunto che numerosi partiti politici sono stati esclusi dalla competizione elettorale, tra cui il popolare Fanmi Lavalas, del due volte deposto presidente Jean-Bertrand Aristide. La richiesta di esclusione sarebbe stata fatta dallo stesso Préval, già alleato di Aristide prima della rottura definitiva seguita al colpo di stato orchestrato da Washington nel 2004.

In queste condizioni, l’affluenza al primo turno è risultata poco meno del 23 per cento, contro quasi il 60 per cento nel 2006, quando trionfò Préval. Nelle aree più colpite dal sisma si è scesi addirittura ad un misero dieci per cento. Ciò significa che il ballottaggio del 20 marzo si terrà tra due candidati che hanno raccolto complessivamente il consenso di appena il dieci per cento dell’intero elettorato haitiano. Di fronte alla farsa del voto del 28 novembre, anche i due candidati che si giocheranno la presidenza avevano inizialmente chiesto l’annullamento dell’elezione, per poi fare marcia indietro una volta constatati i risultati a loro favorevoli.

Sia Mirlande Manigat che Michel Martelly fanno riferimento a partiti di centro-destra ed entrambi sono macchiati da legami con la dittatura dei Duvalier e i successivi regimi militari che hanno guidato l’isola. La vincitrice del primo turno è la 70enne moglie dell’ex presidente Leslie Manigat, già sostenitore del dittatore François Duvalier (“Papa Doc”) prima di finire in carcere e in esilio. Tornato ad Haiti, Manigat conquistò la presidenza nelle elezioni del gennaio 1988, condotte però sotto il controllo dei militari e alle quali partecipò non più del dieci per cento degli aventi diritto. Sei mesi più tardi sarebbe stato deposto dal colpo di stato guidato del generale Henri Namphy, a sua volta rimosso dal potere nel mese di settembre dello stesso anno da un nuovo golpe con protagonista un altro generale, Prosper Avril.

Ancora più compromessa appare poi la figura di Michel Martelly, la cui fama di cantante di successo ha conquistato i consensi di una parte degli haitiani più giovani con poca memoria del passato del loro paese. “Sweet Micky” fece infatti fortuna durante gli anni della dittatura di Jean-Claude Duvalier (“Baby Doc”), gestendo un locale notturno frequentato dai vertici dell’esercito e dai componenti dei gruppi paramilitari che seminavano il terrore nel paese.

Strenuo oppositore del presidente democraticamente eletto Aristide, Martelly appoggiò il colpo di stato che lo depose per la prima volta nel 1991. Allo stesso modo non ha mai nascosto le sue simpatie per il cosiddetto FRAPH (Fronte per l’Avanzamento e il Progresso di Haiti), vero e proprio squadrone della morte fondato nel 1993 dall’uomo della CIA Emmanuel “Toto” Constant.

Alla vigilia dell’avvio ufficiale della campagna elettorale per il ballottaggio di marzo, Manigat e Martelly si sono dati da fare per coordinare le rispettive operazioni con i veri padroni di Haiti, a cominciare da Bill Clinton. L’ex presidente americano detiene un enorme potere ad Haiti, in particolare nella distribuzione dei fondi, in veste di inviato speciale dell’ONU e copresidente del Comitato Provvisorio per la Ricostruzione di Haiti assieme al primo ministro Jean-Max Bellerive.

Incontri formali si sono tenuti anche tra i due candidati e i vertici della forza di pace delle Nazioni Unite di stanza sull’isola (MINUSTAH) e con il Club di Madrid, l’organismo composto da ex premier e capi di stato europei che vorrebbe promuovere democrazia e cambiamento nei paesi più arretrati.

Ad accendere un clima politico già infuocato dalle polemiche seguite al voto e dai problemi del dopo terremoto ha contribuito lo scorso gennaio anche il ritorno in patria dopo 25 anni dell’ex dittatore Jean-Claude Duvalier, finito poi sotto accusa per corruzione e appropriazione indebita durante i quindici anni alla guida del paese (1971-86). Se l’arrivo di “Baby Doc” non ha suscitato le proteste dei due candidati alla presidenza, soprattutto Martelly ha usato invece toni minacciosi nei confronti di Aristide, il quale ha poco dopo manifestato l’intenzione di tornare ad Haiti dal suo esilio in Sudafrica. Lo scorso 8 febbraio, il presidente Préval ha concesso ad Aristide il visto d’ingresso e un suo eventuale rimpatrio potrebbe contribuire ad alimentare le tensioni nel paese.

Alla luce della situazione ad Haiti, è più che lecito dunque ipotizzare che anche il secondo turno delle presidenziali sarà segnato da pesanti scorrettezze. Mentre sono ancora in molti a chiedere che il voto venga annullato interamente, l’impressione generale è che alla fine sarà stata la comunità internazionale ad imporre il nuovo presidente.

Un ballottaggio all’insegna delle irregolarità rischia insomma di gettare le basi per una nuova futura crisi nella già travagliata isola del Mar dei Caraibi, quando invece ciò che vorrebbero in fretta gli Stati Uniti e gli altri paesi che detengono il potere nel paese é un nuovo presidente e un governo stabile che garantisca gli interessi stranieri nella delicata fase della ricostruzione.

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