di Emanuela Pessina 

BERLINO. Lo scorso dicembre, WikiLeaks ha rivelato all’Italia l’intenzione del Governo di censurare internet nel Paese. Il piano di controllo, tuttavia, non è stato portato a termine: all’autorevole quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung (SZ) e alle statistiche di Eurostat il compito di spiegare le ragioni di tale fallimento, se così si può chiamare, alla luce delle più recenti decisioni del Governo italiano.

Per quel che riguarda l’Italia, WikiLeaks aveva mostrato nel 2010 un ambasciatore americano preoccupato per un’eventuale censura di internet da parte del Premier Silvio Berlusconi. David H. Thorne, questo il nome del diplomatico statunitense, esprimeva i suoi timori circa il Decreto Romani, un provvedimento che sarebbe dovuto entrare in vigore a cavallo del 2010, e che avrebbe consentito procedimenti legali contro quei siti che fossero entrato in competizione con il Governo. Secondo le rivelazioni di WikiLeaks, il controllo della rete avrebbe favorito le imprese commerciali come le emittenti televisive, più controllabili e sicuramente più redditizie (anche a livello politico) per i membri del Governo stesso.

Eppure, nonostante l’opposizione online sia da sempre presente e ben organizzata, in Italia così come in tutto il resto del mondo, la censura non è andata in porto. A questo proposito, il quotidiano tedesco SZ ha di recente ricordato il No B-DAY, l’evento organizzato in rete a dicembre 2009, che ha portato in strada centinaia di migliaia di italiani. Oppure le performance di critici teatrali e autonomi come Beppe Grillo o Marco Travaglio, i più conosciuti anche all’estero, che sfruttano soprattutto le piattaforme virtuali per ovviare alla (più o meno) tacita censura televisiva.

Nonostante questi successi, dunque, il Governo italiano non è arrivato a limitare la rete. SZ se ne è chiesta la ragione e ha suggerito una risposta alquanto plausibile, sostenuta da numeri e statistiche, che merita un’analisi più approfondita. Secondo SZ, il Governo non è arrivato alla censura perché gli italiani che hanno accesso a internet sono ancora pochi e l’informazione di opposizione virtuale non costituisce una minaccia reale. In Italia, internet rimane un bene per pochi eletti, un prodotto di svago autoreferenziale legato a social network e chat.

Le statistiche europee, in effetti, parlano chiaro: l’Italia ha ancora poca familiarità con internet. L'Ufficio d’indagine dell'Unione europea Eurostat ha rivelato a fine gennaio che, nel 2010, solo il 52% delle famiglie italiane utilizzava regolarmente internet: una percentuale che colloca il nostro Paese a livello di Spagna, Repubblica Ceca, Ungheria e Cipro, seguito soltanto da Grecia, Croazia, Romania, Macedonia e Bulgaria, fanalino di coda, con il 30% degli accessi. È dei Paesi Bassi la medaglia per la maggiore diffusione di navigatori abituali della rete in Europa (90%), mentre in Germania il tasso di famiglie che utilizzano quotidianamente il web 2.0 sfiora l’80%, in Austria il 75%, in Francia il 70%.

Inutile aggiungere che la poca familiarità con l’universo virtuale fa del popolo italiano uno tra i più esposti ai pericoli della rete, quali virus, violazione della privacy o phishing. Secondo i dati diffusi da Bruxelles, i navigatori italiani sono tra i più colpiti da virus (45%) e si contano tra i fan meno accaniti degli antivirus: dalle statistiche europee risulta che il 67% ne fa volentieri a meno. Per quanto riguarda le frodi online, il 4% degli utenti italiani segnala di avere avuto problemi. Si sono registrate più vittime solo in Lettonia (8%), Gran Bretagna (7%), Malta e Austria (in entrambe 5%). E così il circolo vizioso si chiude: più problemi dà la rete, più cala fiducia nelle sue potenzialità (anche informative) tra gli italiani.

Ed è così, quindi, che la rete non si è conquistata in questi anni la fiducia degli italiani e che, di conseguenza, non ha fatto paura ai mezzi di comunicazione tradizionali, Televisione in primis, a tal punto da richiedere un intervento concreto di controllo da parte del Governo. La mentalità virtuale non è entrata a far parte delle competenze dell’italiano medio: information society, e-commerce, e-governement o e-business sono parole che sembrano provenire da un altro pianeta. Ma, certo, il difetto non è attribuibile alla mancanza di predisposizione dei singoli cittadini italiani.

Perché i dati mostrano che, in Italia, la navigazione virtuale non ha il sostegno delle infrastrutture. Solo nel 49% delle case italiane si utilizza una connessione a banda larga, quando la media europea è del 61%, e Paesi come la Norvegia e la Svezia registrano percentuali dell’83%, la Germania il 65%, Malta il 60%. Risultati peggiori dei nostri sono riscontrabili solo in Grecia (41%), Romania (23%) e Turchia (34%). Ciò significa connessione lenta, meno capillare e più costosa: fattori che, nel XXI secolo, costituiscono un indiscutibile svantaggio competitivo, oltre che a un limite culturale, per un Paese avanzato come dovrebbe essere il nostro.

Ciò significa scuole che insegnano ai bambini ad usare il computer senza connessione internet. Significa comuni dove non ci sono i soldi per gli investimenti in DSL e fibre ottiche, perché considerati alla stregua di beni di lusso. E ora, piuttosto che andare a colmare la lacuna, settimana scorsa il Parlamento ha deciso di utilizzare i 30 milioni di euro inizialmente previsti per l’estensione della banda larga per l’ampliamento della ricezione del digitale terrestre.

Non c’è da stupirsi, quindi, che l’Italia non sia incappata in una censura della rete come succede alle peggiori dittature: il progetto italiano prevede semplicemente di non favorire l’evoluzione del virtuale a favore dei mezzi tradizionali, controllabili e redditizi. Perché prevenire è meglio che curare, non vi è dubbio al riguardo, e un intervento cautelativo dà molti meno problemi rispetto a plateali rimedi posteriori. E chi ne fa le spese, come sempre, i cittadini, che volens nolens non possono scegliere equamente con che mezzo informarsi. È la comodità dei grandi media tradizionali, contro la difficoltà di accedere a quelli più innovativi, a fare la differenza.

 

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