di Fabrizio Casari

Gli Stati Uniti sono nervosi. Balbettano scuse e lanciano accuse. Chiedono e ottengono dall’Interpol un mandato d’arresto internazionale per Assange. Lo scopo è quello d’incolpare il messaggero per salvare il messaggio. Infatti, non arrivano scuse per quanto scritto e, meno che mai, per quanto detto e fatto ai quattro cantoni del pianeta. Bisogna distinguere i due livelli, cioè il testo e il contesto. Sul primo, infatti, le rivelazioni del sito di Assange non sono poi così sconcertanti. Davvero serviva Wikileaks per raccontarci cosa scrivono, pensano e dicono le diplomazie e le robuste differenze che intercorrono tra i tre diversi momenti?

In attesa di leggere le restanti migliaia di file annunciati, sappiamo che i funzionari statunitensi ritengono Berlusconi “il portavoce di Putin”, lo giudicano “inabile” a governare causa festini e lo considerano di scarso spessore politico. Ma è una novità solo per Emilio Fede. Ed é nuovo sapere che Gheddafi usa il botox, perché la Rivoluzione sarà anche Verde ma l’età non lo è più e si fa accompagnare dall’infermiera ucraina in quanto ipocondriaco? O ci giunge nuovo che Sarkozy raccoglie nei suoi 160 centimetri dosi massicce di arroganza e dispotismo?

C’è invece il contesto nel quale le rivelazioni avvengono a segnare in profondità questa vicenda, e il contesto chiama in causa il vero nocciolo della questione: la perforabilità del sistema di comunicazione interno alla superpotenza planetaria. Se questo è il tema, la guerra contro Wikileaks gli Usa l’hanno già persa. Le rivelazioni del sito hanno dimostrato che un budget miliardario e un migliaio di hacker a disposizione della cyber-guerra non sono stati sufficienti a tutelare la sicurezza delle comunicazioni interne, trasformando il Cyber-comando Usa in una confraternita di incapaci. Un tizio qualunque copia, incolla e riversa su un cd interi pacchi di mail e li consegna a chi vuole.

Eppure, per tutelare le loro comunicazioni interne, gli statunitensi avevano predisposto un sistema di sicurezza denominato Siprnet, (Secret Internet Protocol Router Network). Per capirci, una specie di Internet militare separato dalla Rete, dove sono veicolate tutte le informazioni confidenziali tra il Dipartimento di Stato e le ambasciate, oltre che tra il Pentagono e le basi Usa sparse per il mondo a difesa degli interessi dell’impero.

Ma ciò che doveva rimanere uno strumento utilizzabile da pochi, un canale riservato alle comunicazioni di qualche centinaio di persone, è stato in seguito messo a disposizione di quasi tutte le ambasciate e molti dei reparti militari all’estero e che ora é alla portata di circa tre milioni di utenti. Questa è la vera sostanza del problema: nonostante gli sforzi e gli investimenti, le minacce e le esibizioni di muscoli, gli Usa sono perforabili tecnologicamente. E’ forse per questo che il Ministro Frattini (esagerando assai) definisce le rivelazioni di Wikileaks “l’11 Settembre della diplomazia”.

Questa vicenda sembra confermare quanto previsto dal padre della comunicazione moderna, Marshall Mc Luhan, che insegnava come più che il messaggio in sé, ai fini della sua efficacia, importa più il mezzo attraverso cui lo stesso viene veicolato. Più che il contenuto delle mail, infatti, é il veicolo Wikileaks a distruggere la reputazione della sicurezza statunitense nelle comunicazioni interne.

Insomma, quello che Wikileaks ha messo a nudo è la capacità di utilizzare gli strumenti tecnologici per definizione “made in Usa” contro gli stessi Usa e che le risorse infinite possono subire scacco matto da un gruppo di abili redattori. Eccetto questo, nell’occasione ha diffuso tutto ciò che già si sapeva o che era facile immaginare.

Quello che invece non era da tutti conosciuto - e ora lo é - è che il sistema di sicurezza delle comunicazioni è un colabrodo e che la diplomazia statunitense é ridotta davvero male, al punto d’inviare report sulla situazione politica non a seguito di analisi di contesto argomentate ed approfondite, ma dopo aver letto i settimanali di gossip e i quotidiani generalisti, per i quali, parafrasando Von Clausewitz, il gossip è la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ proprio la diplomazia Usa, quindi, la seconda vittima di quanto rivelato. Una diplomazia che si rivela superficiale persino quando pare discettare su cose serie, tra le quali la pressione dei regimi arabi filo-statunitensi affinché si colpisca l’Iran o le lamentele cinesi sull’ottusità dei cugini nordcoreani, sopportati solo per esigenze di controllo dell’area e del relativo parallelo. Ovviamente, se si volesse aggiungere altro sale sulla ferita, basterebbe ricordare le continue dimostrazioni d’incapacità politica e analisi del quadro socio-economico e politico dei funzionari del Dipartimento di Stato sparsi in ogni ovunque dell’America latina.

Ma se si ritiene che le mail intercettate e i giudizi ivi contenuti possano mettere in imbarazzo la diplomazia statunitense, s’incorre in errore. Mail come quelle pubblicate si possono riscontrare da e verso ogni ambasciata e cancelleria del mondo. Contengono giudizi, opinioni, non analisi. Queste, infatti, viaggiano su altri canali, criptati e orali. E sulla qualità dei report delle ambasciate indirizzate ai dirigenti della politica estera non c’è da meravigliarsi in ordine a quanto venuto alla luce.

Ogni Stato ha nei suoi diplomatici estensori di rapporti scarsamente interessanti e, tranne rari casi (quasi tutti europei, scuola di diplomazia antica ed efficiente e i paesi socialisti, di eguale tradizione) difficilmente le ambasciate occidentali e arabe raccolgono il meglio del personale politico cresciuto nelle scuole quadri delle rispettive cancellerie. Per gli Usa, poi, il problema è ancora più serio: personaggi di quarta fila, inviati scopo carriera dovuta, parentele da ossequiare e finanziatori elettorali da risarcire, sono la norma negli uffici delle rappresentanza diplomatiche a stelle e strisce. E a leggere le rivelazioni di Wikileaks, si è autorizzati a pensare che anche sul fronte dell’intelligence le cose, apparentemente, non vadano meglio, dal momento che l’attività di controllo spionistico nei confronti del Segretario Generale delle Nazioni Unite (per fare un esempio) è cosa risaputa e dimostrata come il teorema di Pitagora.

Alla fine, le rivelazioni di Wikileaks sono poco più che la diffusione di mail inutili. Indicative, é vero, ma inutili. Certo, l'offerta di esibizione fotografica e televisiva del proprio Presidente a colloquio con un premier qualunque in cambio dell'accettazione di 2 prigionieri a Guantanamo, non aiuta ad elevare la considerazione per la Casa Bianca e per il suo inquilino.

Ci piacerebbe invece leggere i messaggi cifrati, quelli che sotto la dicitura "Top Secret" vengono inviati dai capistazione Cia a Langley. Lì, ci si può scommettere, ben altre sono le informazioni contenute e ben altro interesse avrebbe leggerle. Per scoprire che gli Usa spiano, manipolano, finanziano, corrompono, minacciano e colpiscono tutto ciò e tutti coloro che a Washington si ritiene siano una minaccia non alla sicurezza nazionale, ma ai loro interessi politici, finanziari, commerciali e militari.

Le “Covert action” della Cia e del Pentagono, però, difficilmente verranno scoperte dal sito di Assange, che per pubblicare ha bisogno di ricevere, cioé ha bisogno di una “talpa” che raccolga e consegni documentazione quanto più pubblica, proprio per evitare che l’individuazione della fonte diventi operazione semplice.

A squadernare le "covert action" della Cia, a smascherare le provocazioni ed i piani che a Washington e Langley studiano per mantenere ad ogni costo la capacità di dominio unipolare, furono giornalisti come i premi Pulitzer Bob Woodward e Carl Bernstein, che pubblicarono sul Washington Post l’inchiesta sul Watergate, obbligando Nixon a dimettersi.

Ancor di più, se davvero si volesse sapere ciò che non è permesso sapere, se davvero si volesse denudare il Re, servirebbero martiri della libera informazione come Gary Webb, anch’egli due volte Premio Pulitzer grazie alle inchieste sul coinvolgimento della Cia nell’introduzione del crack nei sobborghi di Los Angeles e di New York per finanziare la guerra illegale contro il Nicaragua sandinista negli anni '80. La Cia, infatti, vendette centinaia di tonnellate di cocaina e crack negli stessi Usa, al fine di ricavare fondi con i quali finanziare i contras antisandinisti.

Un piccolo giornale, il San José Mercury News e un libro, “The dark alliance”, fecero danni incommensurabili ai criminali che sedevano nel Pentagono, nella Cia e alla Casa Bianca. Oggi per Assange si muove l’Interpol, mentre per Gary Webb si misero i sicari di Langley. A Gary Webb non provarono a fermarlo con il discredito. Lo fermarono con due colpi di fucile e affermarono poi che era morto suicida. Evidentemente sparandosi il primo colpo ancora vivo e il secondo colpo dopo che era momentaneamente risorto. Certamente allo scopo di non lasciare il lavoro a metà.

 

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