di Bianca Cerri

Saddam Hussein, ieri davanti ai giudici per crimini contro l'umanità, avrà sicuramente provato un moto d'invidia apprendendo che i liberatori dell'Iraq sono riusciti a fare molte più vittime di quelle attribuite al suo regime. All'obitorio di Baghdad, nella zona nord della città, arrivano centinaia di cadaveri che recano ancora visibili i segni della violenza e della tortura portate all'estremo. Nell'infernale Iraq di oggi, dove ormai non esiste più nulla, questa è la meta finale per i civili innocenti uccisi a tradimento nelle strade. Per quelli che non hanno nome, se nessuno verrà ad identificarli, ci sarà solo una fossa con sopra un numero. Parenti e amici in cerca di persone scomparse arrivano quando è ancora buio e aspettano in silenzio di varcare il pesante cancello di ferro ed effettuare eventuali riconoscimenti. Rischiano di morire anche loro come tutti, perché anche fuori dall'obitorio impazzano bande di rapitori, cecchini, vendicatori che sparano a caso sulla gente. Una volta all'interno si coprono la bocca e il naso con stracci di fortuna per evitare di respirare aria satura di morte. Tra poco, con l'arrivo del grande caldo, la situazione peggiorerà, perché non ci sono celle frigorifere sufficienti a contenere i tanti corpi ammassati e quelli che continuano ad arrivare. Ogni tanto arriva un furgone a prelevare i cadaveri che devono essere sottoposti ad autopsia. Le bare di legno leggero vengono appoggiate in bilico addosso al muro per mancanza di spazio. In ogni angolo ci sono persone che piangono. A Baghdad i massacri sono quotidiani e le morti violente non vengono neppure registrate. Con l'anarchia che regna nella città e in tutto il paese, vivere o morire sono concetti alquanto effimeri. Decine di cadaveri vengono scaricati all'obitorio dagli americani e solo in questo caso non verranno sottoposti ad autopsia. Non è dato sapere perché. Guerra e violenza hanno fatto altre 3600 vittime a partire dalla fine di febbraio. Alle quali si sono aggiunte quelle del massacro di Hadhita, di cui abbiamo appreso solo poche ore fa. Riportato dai giornali come un avvenimento di infimo ordine che quasi non vale la pena di raccontare.

La violenza che sta sconvolgendo l'Iraq ha cambiato anche le usanze funebri e, per dare una sepoltura più o meno degna ad una persona cara, si può contare solo sull'aiuto dei volontari. Chi possiede il dono della fede potrà anche sperare che, in un ipotetico aldilà, i morti trovino quella pace che per i vivi tarda ad arrivare. Malattie come tifo, colera, tubercolosi, hanno fatto una trionfale rentrèe in tutto il paese e la scarsa ventilazione delle aule scolastiche facilita la trasmissione di malattie esantematiche da un bambino all'altro. Le tubature dell'acqua sono andate distrutte e le sostanze emanate dalle bombe hanno reso ancora più precario il già fragile ecosistema del paese. Il sistema sanitario iracheno, che pure fino a 10 anni fa era considerato il migliore di tutto il Medio Oriente, oggi non riesce a tenere il passo con l'escalation della violenza. Almeno 233.000 persone sono costrette a vivere con malattie croniche causate dalla guerra, ma in molti casi non possono essere assistite perché uscire di casa potrebbe rivelarsi fatale.

Il quadro che oggi si presenta agli occhi degli osservatori è quello di un paese in cui nessuno è più chiamato a rispondere di nulla, ma che ha già pagato un prezzo immenso per l'espropriazione illegale delle sue ricchezze. E dove la banalità del male, che in Iraq ha trovato casa, viene tacitamente condonata.

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