di Michele Paris

Il summit sulla sicurezza nucleare voluto dall’amministrazione Obama e andato in scena a inizio settimana nella capitale americana, aveva come obiettivo ufficiale quello di promuovere il disarmo su scala globale e stabilire strategie condivise per impedire ai terroristi di accedere ad armi di distruzione di massa. Come ampiamente previsto, la sfilata a Washington dei leader di 47 paesi si è invece risolta principalmente nell’ennesimo tentativo degli Stati Uniti di raccogliere consensi per isolare ulteriormente i governi di Iran e Corea del Nord. Il tutto in previsione, per quanto riguarda almeno la Repubblica Islamica, dell’applicazione di nuove pesanti sanzioni con il beneplacito delle Nazioni Unite.

Che le promesse elettorali del presidente americano di avviare un dialogo senza condizioni con Teheran abbiano lasciato spazio alle posizioni dei falchi all’interno della sua amministrazione è noto ormai da tempo. Obama, tuttavia, continua a provare a dissimulare l’approccio aggressivo del suo predecessore, incoraggiando un atteggiamento apparentemente multilaterale e cooperativo. Difficile però nascondere il vero obiettivo: allargamento dell’influenza americana in Medio Oriente e in Asia Centrale in un frangente storico caratterizzato da una competizione sempre più feroce sullo scacchiere internazionale.

In tale contesto, la convocazione di un’assemblea con un numero di capi di stato e di governo da ogni parte del mondo come non si vedeva da oltre mezzo secolo sul suolo americano, ha rappresentato una perfetta operazione di pubbliche relazioni per l’amministrazione Obama. Di fronte ad un consesso così autorevole, la cui composizione è stata attentamente studiata, Washington spera di ottenere il maggior supporto possibile per procedere verso nuove ritorsioni contro i consueti nemici (Iran e Corea del Nord) e, parallelamente, consolidare la propria egemonia militare, sia per quanto riguarda le armi nucleare che per quelle convenzionali.

Tra i vari incontri bilaterali che hanno preceduto il summit vero e proprio, il più significativo è stato quello tra Obama e il presidente cinese, Hu Jintao. Secondo i resoconti ufficiali, dopo il faccia a faccia durato 90 minuti, Pechino avrebbe acconsentito in linea di principio a discutere delle sanzioni da applicare all’Iran, anche se nessuna promessa specifica sarebbe stata fatta agli americani. Nonostante gli USA provino da tempo a rassicurare che in caso l’Iran dovesse chiudere i rubinetti delle forniture di petrolio alla Cina, altri paesi arabi sarebbero pronti a prenderne il posto (Arabia Saudita in primis), la posizione di Pechino appare ancora incerta. A molti la posizione cinese ricorda, infatti, quella già tenuta qualche anno fa durante l’amministrazione Bush, quando il presunto accordo trovato per appoggiare le sanzioni contro Teheran si trasformò in una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU alquanto ammorbidita, proprio in seguito ai veti di Pechino.

Il doppio binario seguito da Washington sulla politica nucleare, in ogni caso, si è rivelato in maniera clamorosa anche nella preparazione di questo summit. Come ci si attendeva, l’invito della Casa Bianca non è stato esteso ai paesi cosiddetti ostili - Iran, Corea del Nord e Siria - perché ritenuti in violazione del Trattato di Non Proliferazione (NPT). A ben guardare, però, Iran e Siria, entrambi comunque firmatari del Trattato, continuano a cooperare con gli ispettori dell’Agenzia Atomica Internazionale (IAEA), mentre la Nord Corea ne è uscita nel 2003, come previsto dallo stesso Trattato.

Al contrario, a Washington sono volati i rappresentati di altri tre paesi che appaiono in una posizione molto più difficilmente sostenibile dal punto di vista del diritto internazionale. Tutti e tre sono stati accolti a braccia aperte dall’amministrazione Obama, in quanto alleati degli Stati Uniti. India, Pakistan e Israele, infatti, pur non avendo mai sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, hanno sviluppato programmi nucleari a scopo militare - anche se Israele continua a negare ufficialmente il possesso di armi nucleari. La paradossale posizione israeliana, poi, è emersa ancora una volta proprio alla vigilia del summit, quando il primo ministro Netanyahu ha cancellato il proprio intervento per timore che i paesi arabi presenti potessero sollevare precisamente la questione del nucleare di Tel Aviv.

Così, mentre si è discusso diffusamente del pericolo che un ordigno nucleare possa finire nelle mani di Al-Qaeda, nonostante non vi sia prova alcuna che ciò sia accaduto o possa accadere nel prossimo futuro, nessun riferimento è stato fatto al pericolo rappresentato dagli arsenali militari dei paesi presenti al summit. Complessivamente, è stato stimato che gli otto paesi dotati di armi nucleari presenti a Washington (USA, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, Israele, India e Pakistan) posseggano oltre due mila tonnellate di materiale nucleare, sufficiente per produrre 120 mila testate letali.

Sempre alla vigilia della conferenza, per dare un qualche contenuto concreto al comunicato ufficiale che prevedeva iniziative per la riduzione del materiale nucleare, Cile e Ucraina (e successivamente anche il Canada) avevano poi annunciato imminenti piani per smantellare le rispettive riserve di uranio arricchito. L’Ucraina, in particolare, possiede un quantitativo consistente di uranio ad alto arricchimento, facilmente convertibile in armi nucleari; un residuo dell’arsenale sovietico stoccato sul suo territorio e in gran parte già smantellato nell’ultimo decennio. In cambio, per entrambi paesi, si prevedono significativi aiuti finanziari da Washington.

Intanto, alla retorica di Obama su un mondo libero dalla minaccia nucleare hanno fatto da contrappunto le dichiarazioni alla stampa e alle televisioni americane del Segretario di Stato, Hillary Rodham Clinton, e del numero uno del Pentagono, Robert Gates. Alla firma del trattato START 2 con la Russia per la riduzione dei rispettivi arsenali nucleari e alla recente modifica della politica militare nucleare annunciata dalla Casa Bianca, che limiterebbe sostanzialmente l’impiego di armi nucleari contro Iran e Corea del Nord, i due falchi dell’amministrazione Obama si sono adoperati per sottolineare la persistente superiorità militare americana su scala planetaria.

Mentre l’Iran nel prossimo fine settimana organizzerà un proprio contro-summit sul nucleare, il prossimo passo nello sforzo americano per convincere l’opinione pubblica mondiale della necessità di un atteggiamento più aggressivo nei confronti di Teheran avverrà verosimilmente il mese prossimo, precisamente nel corso della conferenza presso le Nazioni Unite per la revisione del Trattato di Non Proliferazione. Ratificato nel 1970, il Trattato prevede incontri quinquennali tra i paesi firmatari teoricamente per fare il punto sull’avanzamento dei piani di disarmo adottati dai paesi possessori di armi nucleari. Come in passato, anche quest’anno si può già prevedere che ben poco si parlerà di quest’ultimo processo, mentre con ogni probabilità il vertice si risolverà in un nuovo round di minacce contro Teheran e Pyongyang.

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