di Fabrizio Casari

L'hanno chiamata Partnership of the Americas, ma sarebbe più giusto definirla una mostra di muscoli da parte degli Usa. Le manovre militari nel mar dei Caraibi, in corso dallo scorso mese di Aprile e la cui fine è prevista per gli ultimi giorni di maggio, vedono uno schieramento bellico impressionante, fatto di tre portaerei, sottomarini nucleari, decine di F16, seimilacinquecento soldati. Ad Aruba, quindi a soli 15 miglia dalle coste del Venezuela, sono state effettuate simulazioni di sbarco di truppe e la cosa, ovviamente, non è piaciuta al governo di Caracas. Che oltre ad avere memoria sufficiente per ricordare Granada e Panama, ha qualche buona ragione per temere le minacce di Washington, negli ultimi tempi ulteriormente accentuate dalle accuse di "destabilizzazione" della regione, seguite da quelle - non meno infamanti - di proteggere i terroristi e di non combattere il traffico di droga nel continente. Ora, a guardar bene, le tre accuse rappresentano l'arsenale classico della propaganda statunitense nell'era Bush, quando questa accompagna l'escalation di minacce ai Paesi che non s'inginocchiano davanti ai voleri dell'imperatore.
Si tratta dello stesso copione che è stato messo in scena in decine di altre occasioni e le cui varianti attengono solo ai temi - terrorismo va particolarmente di moda in questi ultimi anni - sui quali si fonda l'operato statunitense nel ruolo di gendarme globale.

L'ambasciatore Usa a Caracas, William Brownfield, ha cercato di minimizzare la valenza delle manovre militari, sostenendo che "le manovre nei Caraibi sono sempre esistite e continueranno ad esistere", ma le precisazioni del Pentagono, secondo cui quale dette manovre sarebbero destinate "unicamente a far fronte a minacce non convenzionali, quali il traffico di droga e di esseri umani", hanno confermato, seppur indirettamente, i legittimi dubbi venezuelani.
Del resto, se così fosse, cioè se lo scopo dichiarato dal Pentagono fosse quello vero, non si capirebbe la dislocazione di arsenali nucleari per affrontare simili piaghe; ma naturalmente il Pentagono ha preferito glissare sulle obiezioni.

Le manovre, a detta di tutti gli osservatori indipendenti, sono invece la reiterazione materiale delle minacce verbali che Washington profferisce in lungo e largo da alcuni mesi a questa parte nei confronti della Repubblica Bolivariana. Una escalation che segue quella dei toni usati da Condoleeza Rice, che ha ha accusato Hugo Chavez di "influenzare i suoi vicini per farli uscire dal processo democratico" (cioè l'obbedienza agli Usa). Per contrastare "l'influenza negativa" del Venezuela, la Rice ha proposto un incremento delle relazioni tra Washington e gli altri Paesi democratici del continente, inserendo anche quelli "di sinistra responsabile" come Brasile e Cile.

Ma è solo una facciata tesa a dimostrare la necessità dell'aumento di 32 miliardi di dollari del budget a disposizione del Segretariato di Stato Usa. In realtà le accuse al Venezuela, come si diceva, hanno uno spettro più ampio. Chavez è tra l'altro accusato di offrire appoggio politico e finanziario al Frente Sandinista del Nicaragua che si candida a governare il Paese alle elezioni del prossimo novembre. L'eventuale vittoria di Daniel Ortega ossessiona la Casa Bianca, risvegliando i fantasmi degli anni '80, al punto che la Rice si è detta certa che la vittoria del Fsln "potrebbe generare una situazione nella quale il governo legittimamente eletto potrebbe non funzionare".

Un modo come un altro per ribadire che la possibile vittoria dei sandinisti riporterebbe gli Usa nella trincea della "guerra sporca", confermando così che la democrazia ed il processo elettorale hanno valenza solo quando gli interessi di Washington vincono: quando perdono, vanno invalidati nei fatti.

Le accuse a Caracas d'ingerenza negli affari interni del Nicaragua si basa sulla decisione di Chavez di fornire petrolio a condizioni molto vantaggiose ai comuni governati dai sandinisti. In realtà Chavez aveva offerto aiuto energetico in primo luogo al governo Bolanos, che dopo aver consultato Washington ha deciso di non accettare, nonostante la gravissima crisi energetica del Nicaragua. Di conseguenza Chavez ha firmato a Caracas, alla presenza di Daniel Ortega e di 21 sindaci dei comuni più importanti governati dal Frente Sandinista, un accordo che prevede la somministrazione di petrolio in attraverso un accordo di cooperazione con le amministrazioni locali. Ma se questo potrebbe configurarsi come un aiuto al Frente sandinista da parte di Chavez, nulla potrebbero dire gli Usa che hanno trasformato il Nicaragua, un tempo Paese sovrano, in un protettorato Usa dove l'ambasciatore di Washington svolge il ruolo di proconsole dell'impero ed ordina al governo le scelte politiche interne ed internazionali da compiere.

Si, proprio Paul Trivelli, l'ambasciatore Usa a Managua, che ogni giorno parla, straparla ed ordina ai partiti nicaraguesi strategie e posizioni politiche; che convoca governo e destra politica, imprenditori nazionali ed esteri per dare ordini sotto forma di "suggerimenti", ha imposto come condizione per gli aiuti statunitensi ai partiti di destra il formarsi di una coalizione ampia che scongiuri la vittoria dei sandinisti a novembre. Promesse e minacce, moniti e consigli, pugni sul tavolo e conferenze stampa, ma niente che abbia a che fare con le normali funzioni diplomatiche di un ambasciatore e molto invece ha a che fare con l'ingerenza pesantissima negli affari interni di un paese nel quale è ospite. Parlare dunque d'ingerenza venezuelana in Nicaragua è quanto meno fuori luogo.

E' proprio l'eventuale vittoria di Daniel Ortega che, dopo quella di Evo Morales in Bolivia, agita i sonni già poco tranquilli dell'Amministrazione Bush; che accusa la sinistra latinoamericana di "populismo" e che ricorda, in ogni luogo ed ogni dove, che "non si deve permettere che la fraudolenta attrazione del populismo latinoamericano contro il libero mercato possa erodere le libertà politiche". E' la nuova versione della strategia di sicurezza nazionale.

Per alzare ulteriormente il livello della tensione con Caracas, Washinton ha lanciato accuse al Venezuela, che sarebbe "il punto di transito chiave per la droga colombiana". Le accuse sono la risposta statunitense al rifiuto venezuelano di ricevere i funzionari della Drug Enforcement Agency, accusando di spionaggio il personale statunitense e rifiutando le indicazioni di Washington sulle strategie di lotta al traffico di droga.
La scelta di Chavez di non aderire alla linea politica statunitense sul tema della lotta al narcotraffico, è stata argomentata da Caracas con il rifiuto di riconoscere agli Usa la benché minima autorità per erigersi a leader della lotta al traffico degli stupefacenti: "Il presidente degli Stati Uniti - ha detto Chavez - utilizza la lotta contro il flagello del narcotraffico come una bandiera politica al riparo della quale ripropone l'interventismo statunitense sull'intero continente". Il presidente venezuelano ha quindi maliziosamente ricordato come gli stessi dati dell'Unione Europea indichino al 9,47 per cento la percentuale dei consumatori di droga statunitensi, mentre il dato che si riferisce ai venezuelani ammonta allo 0,47. Trentacinque milioni di statunitensi fanno uso regolare di droghe, elevando così gli Usa a principale paese importatore, centro assoluto della domanda mondiale di stupefacenti. Dati che, da soli, indicherebbero dove rivolgere le strategie belliche antidroga della Casa Bianca.

Caracas è perfettamente cosciente che il pantano iracheno e il precipizio nel quale sono caduti i consensi a Bush sono l'elemento principale che ha fino ad ora impedito una prova di forza contro la Rivoluzione bolivariana. Ma in attesa di un clima più propenso al rispetto reciproco, la risposta di Caracas all'escalation di minacce Usa si fonda su due piani: militare ed economico. Da un lato ha già dichiarato di essere pronta a rivedere le forniture petrolifere a Washington, che coprono circa il venti per cento del fabbisogno energetico interno degli Stati Uniti. Minaccia che l'Amministrazione Bush farà bene a prendere sul serio, visto che a Caracas non mancano certo i compratori, mentre le sorti della guerra in Iraq e la crisi con l'Iran potrebbero avere - se accompagnate da una rottura con il Venezuela - effetti pericolosi sulle entrate energetiche del Paese.
Dall'altro, sul piano strettamente militare, Caracas ha accelerato i preparativi militari destinati ad impedire una eventuale invasione. Dopo l'acquisto di 32 elicotteri da combattimento dai russi, parte di un programma di riarmo con la partnership spagnola e brasiliana, ha già incrementato il programma di formazione della milizia popolare.
Nella speranza che non debba mai averne bisogno e nella certezza che, nel caso, non esiterà a schierarla.

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