di Carlo Benedetti

La Nato e l'Unione Europea scendono direttamente in campo contro il Presidente della Bielorussia Aleksandr Lukashenko. Rivendicano un ruolo egemone, di regia geopolitica e contestano di conseguenza il recente "plebiscito" che ha riconfermato il potere di Minsk con l'82% di sì. Intervengono pesantemente sulla situazione interna del Paese. L'obiettivo consiste nel rimettere in discussione la situazione politico-amministrativa interna e dare così spazio all'opposizione anti Lukashenko. L'accusa che viene avanti è concentrata sulle "violazioni" dei diritti umani e delle norme più elementari della democrazia. A Lukashenko è inoltre rimproverato di voler mantenere il controllo statale delle imprese, di bloccare la liberalizzazione del mercato e di impedire la formazione di un sistema di multipartitismo effettivo. Ma in pratica è accusato per la "fedeltà" a Mosca ed a certi ideali che erano alla base della costruzione sovietica. Tutto questo si inserisce nel quadro di una battaglia sempre aperta su quel referendum pansovietico che si tenne nel marzo 1991 e che vide la stragrande maggioranza dei cittadini esprimersi a favore del mantenimento dell'Urss (circa l'80% i favorevoli). Ma quel referendum fu ignorato totalmente. Subito. Cancellato dall'arena politica interna ed internazionale. Quelle schede con i "Si" o i "No" furono gettate nelle cantine del Cremlino. Forse distrutte, bruciate. Eppure in quei fogli - veri e propri documenti di un'epoca intera - c'era tutta la storia del Paese. C'erano le testimonianze di milioni e milioni di persone che avevano espresso - nell'unica maniera possibile - una precisa volontà. Ed è oggi proprio Lukashenko che si fa portavoce di quelle tendenze.
Di qui la nuova e rinnovata aggressione della Nato contro questo presidente scomodo e contro un paese che si oppone all'espansione ad Est dell'Alleanza militare atlantica.

E' in tale contesto che l'Ovest prende anche spunto da una serie di fatti interni alla Bielorussia, precisamente dall'atteggiamento del potere centrale contro uno dei suoi più accaniti oppositori: Alexander Vladimirovic Milinkevich (1947), esponente della Bielorussia filo-americana ed antirussa. E' lui, infatti, che dopo la sconfitta alle recenti presidenziali ha mostrato apertamente di non riconoscere il risultato dando vita a manifestazioni antipresidenziali. Quella più eclatante si è svolta il giorno del ventesimo anniversario della catastrofe di Chernobyl. Qui le forze che si ritrovano con Milinkevich hanno approfittato dell'occasione per dare vita a proteste contro Lukashenko e subito è scattata la repressione. L'oppositore è stato arrestato e condannato a 15 giorni di carcere. Immediata, ovviamente, la mobilitazione del Dipartimento di Stato americano che, come è noto, ha già investito milioni di dollari in Bielorussia per sostenere quelle organizzazioni che (guidate appunto dal liberale Milinkievich, dal socialdemocratico Kozulin, dal filo-americano Gaidukevic e collegate agli ambienti dell'emigrazione bielorussa e ad agenzie dell'intelligence statunitense) si impegnano nella lotta contro il potere centrale prodigandosi per favorire la nascita di una nuova classe di capitalisti.
Ecco, quindi, che gli Usa - seguiti dalla Comunità Europea - decidono una serie di restrizioni sui visti nei confronti dei pubblici ufficiali bielorussi. Minsk protesta rilevando che "nessuno ha il diritto di alterare le scelte della Bielorussia" e che le azioni dettate da oltreatlantico sono "incivili e senza prospettive".


Si è di fronte ad un vero e proprio conflitto. Perché il Consiglio Nordatlantico della Nato entra nel merito della vita politica e sociale della Bielorussia. Assumendo, tra l'altro, funzioni che non riguardano l'Organizzazione militare. E questo - dicono i vertici di Minsk - senza tener conto del fatto che la Bielorussia stessa è garante della sicurezza nella regione euroatlantica in diversi campi: dal disarmo nucleare a quello convenzionale. E il contributo al processo di consolidamento della sicurezza internazionale è inoltre garantito dal fatto che è proprio la Bielorussia ad essere sede centrale della CSI, l'organizzazione degli Stati indipendenti sorti dopo la dissoluzione dell'Urss. Non solo, ma la Bielorussia ha una parte notevole nel Programma di "Partnership per la Pace". Ed ecco che nel momento in cui Milinkevich si trova agli arresti arriva a Minsk un nuovo e duro monito della Nato. Se ne fa portavoce lo stesso Segretario generale dell'Organizzazione, Jaap de Hoop Scheffer il quale - durante una riunione atlantica in corso a Sofia - chiede la liberazione immediata di Milinkevich. "La nostra Comunità internazionale - dice - non può approvare le azioni di Minsk". E da Strasburgo il commissario europeo alle relazioni esterne, Benita Ferrero Waldner, si unisce al coro delle proteste ribadendo che le sanzioni economiche contro la Bielorussia continueranno.Milinkevich diviene così il simbolo di un'opposizione radicale.

E nel Paese si torna a parlare della sua vita, della sua biografia e del suo impegno nella lotta contro la vicina Russia. Di lui le forze nazionaliste locali che lo appoggiano mettono in evidenza che la sua famiglia fu duramente colpita, prima dalle repressioni della Russia zarista e poi da quelle del potere sovietico negli anni Venti. Si ricordano poi la sua brillante carriera scientifica come fisico e matematico ed il suo impegno come studioso nell'Università americana della California e in vari istituti scientifici della Germania, del Belgio, dell'Olanda e della Francia. Si evidenziano, infine, i suoi stretti rapporti con l'Europarlamento. Tutte queste qualità sono evidenziate dai sostenitori. Ma sono proprio queste qualità ad essere contestate dalla maggioranza della popolazione della Bielorussia, che vede in lui quello che Lukashenko definisce come il "virus" di una controrivoluzione che si vorrebbe affermare in Bielorussia attraverso una insidiosa manipolazione del consenso, con l'uso dei media occidentali. Non basta avere amici a Washington se non se ne hanno a Minsk.

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