di Michele Paris

Il prossimo 3 Novembre gli elettori della città di New York si recheranno alle urne per eleggere il loro nuovo primo cittadino. Favoritissimo per la vittoria sarà ancora una volta il sindaco in carica, il miliardario e magnate dell’editoria Michael Bloomberg, il cui nome però, non più tardi di un anno fa, non avrebbe dovuto nemmeno apparire sulle schede elettorali. Con una manovra di palazzo, l’uomo d’affari ex democratico, diventato successivamente repubblicano e ora indipendente (seppure riabbracciato dai repubblicani), ha infatti cancellato il limite massimo di due incarichi consecutivi consentito dalla legge, ottenendo la possibilità di correre per un terzo mandato e spendere liberamente decine di milioni di dollari della propria fortuna personale in una campagna elettorale a senso unico.

A meno di un mese dal voto, Bloomberg ha già sborsato di tasca propria qualcosa come 65 milioni di dollari per convincere gli elettori newyorchesi a consegnargli altri quattro anni alla guida della città. Entro l’Election Day, è probabile che il sindaco finirà per spendere complessivamente oltre 100 milioni di dollari, un record assoluto per una competizione locale. Questa somma enorme d’altra parte non rappresenta che una minima parte dei suoi beni, stimati da Forbes in 16 miliardi di dollari, mentre supera abbondantemente quanto speso finora dal suo più accreditato sfidante (3,8 milioni).

A contrastare (si fa per dire) Bloomberg, il prossimo novembre sarà il candidato democratico William C. Thompson, la cui relativa popolarità tra gli elettori è dovuta al suo attuale ruolo di “City Comptroller”, una carica elettiva che prevede, tra l’altro, la supervisione delle finanze cittadine, la gestione del debito comunale e dei fondi pensione dei dipendenti pubblici. Vincitore delle primarie democratiche dello scorso mese di settembre, Thompson dispone di riserve residue pari a qualche centinaia di migliaia di dollari che ben poco potranno per contrastare la macchina da guerra di Bloomberg, nonostante quattro su cinque elettori di New York risultino affiliati proprio al suo partito.

Da sempre democratico, Bloomberg cambiò partito nel 2001 per conquistare il primo mandato da repubblicano. Nel 2005 ottenne la conferma e due anni più tardi abbandonò il Partito Repubblicano diventando indipendente e alimentando le speculazioni di quanti lo consideravano un possibile candidato alle presidenziali del 2008, svincolato dai due maggiori partiti americani. Se otto anni fa la sua fama di outsider lo aveva costretto a spendere somme ingenti nella campagna elettorale cittadina, la situazione attuale sembra ben diversa. L’ottavo uomo più ricco d’America ha acquistato ormai una vasta notorietà, ma le polemiche sulla sua gestione e la situazione economica della città rendono necessario ancora una volta un notevole esborso di denaro per garantirgli il successo elettorale.

La sua campagna per un terzo mandato consecutivo di quattro anni è caratterizzata da una certa apatia degli elettori, convinti da un’organizzazione mastodontica dell’inevitabilità della vittoria di Bloomberg. L’entusiasmo dei cittadini per quest’ultimo è infatti fortemente minata dall’insoddisfazione prodotta dalla crisi economica in atto e dalla rabbia nei confronti di Wall Street, con cui la fortuna di Bloomberg viene giustamente identificata. La sproporzione tra le disponibilità economiche del sindaco in carica e quelle dei suoi sfidanti, ha finito per creare precocemente una sensazione di scoraggiamento tra quanti auspicavano una valida alternativa, soprattutto tra le fila democratiche.

A contribuire alle perplessità che gli elettori nutrono nei confronti di Bloomberg quest’anno c’è poi soprattutto la questione del limite dei due mandati, già approvato in due referendum dai newyorchesi e lo scorso anno dissolto da un voto del consiglio comunale. Già a partire dal febbraio 2008 pare che Bloomberg stesse valutando un provvedimento che gli avrebbe permesso di venire rieletto per la terza volta a sindaco della metropoli americana. Un sondaggio, da lui commissionato, aveva però indicato la contrarietà della maggioranza degli elettori alla modifica. L’idea di un nuovo referendum è stata così messa da parte e, al momento opportuno, la questione è stata invece portata in consiglio comunale.

In concomitanza con l’esplosione della crisi finanziaria nel settembre dello scorso anno, Bloomberg ha orchestrato una campagna per l’approvazione di un terzo mandato, sostenendo che l’emergenza economica in cui versava - e versa tuttora - la città richiedeva la sua permanenza nell’incarico di primo cittadino. Visto che una nuova consultazione elettorale sull’argomento avrebbe coinciso con le elezioni presidenziali del novembre 2008, dove un’alta affluenza alle urne avrebbe con ogni probabilità portato ad una netta bocciatura dell’iniziativa di Bloomberg, quest’ultimo ha stabilito che non esistevano i tempi tecnici per organizzare un referendum.

Dopo aver convinto gli altri membri del consiglio comunale, ben felici anch’essi di avere un’altra occasione per conservare il loro mandato per altri quattro anni, l’uomo più ricco di New York ha potuto mettere insieme la maggioranza necessaria per un voto favorevole, nonostante le polemiche sollevate da più parti per avere calpestato l’opinione degli elettori. Strumentalizzando la crisi economica, Bloomberg è riuscito pertanto dove il suo predecessore, Rudolph Giuliani, aveva fallito otto anni prima, all’indomani degli attacchi dell’11 settembre.

La manovra del sindaco di New York ha così spiazzato i suoi possibili avversari democratici, i quali fino a quel momento ben poco avevano fatto per proporre una visione alternativa del futuro della città. Con il controllo di 46 dei 51 seggi comunali, nonché di molte altre cariche elettive locali, il Partito Democratico newyorchese negli ultimi quattro anni ha quasi sempre assecondato le politiche “business-friendly” e i tagli alla spesa pubblica promossi da Bloomberg. William Thompson, il candidato democratico alla carica di sindaco, ha visto crollare le sue certezze di successo finale quando il primo cittadino ha cambiato le regole del numero di mandati consentiti. Sentendosi tradito, ha allora iniziato la sua battaglia contro il ben più potente rivale.

Prodotto politico dell’organizzazione democratica di Brooklyn, Thompson è il figlio di un ex senatore dello Stato di New York e, negli anni ‘90, è stato a capo del sistema educativo della città. La sua vittoria nelle primarie del partito è arrivata ai danni del suo principale avversario, il membro del consiglio comunale Tony Avella. Lo sconforto tra i democratici era apparso evidente già in questa consultazione tra gli elettori del partito, alla quale ha partecipato appena l’11% degli aventi diritto. Thompson perciò ha ottenuto la nomination democratica grazie a circa il 3% degli elettori newyorchesi.

Nelle rimanenti settimane di campagna elettorale, il candidato democratico avrà di fronte a sé un’impresa ai limiti del possibile contro un avversario che dispone di un potere economico e mediatico formidabile. Il recentissimo dibattito televisivo tra i due sfidanti ha evidenziato poi le difficoltà di Thompson nel far giungere agli elettori un messaggio chiaro e alternativo a quello di Bloomberg, con il quale si trova in sintonia su molte questioni. A queste difficoltà va poi aggiunta la freddezza del presidente Obama nei confronti del proprio compagno di partito. Il mancato appoggio a Thompson appare infatti come una sorta di tacito sostegno a Bloomberg, soprattutto alla luce dell’interventismo ostentato dalla Casa Bianca in altre competizioni elettorali, come quelle per la carica di governatore negli stati di New York e del New Jersey.

L’ineluttabilità del terzo successo consecutivo di Michael Bloomberg e la sua posizione pressoché inattaccabile nell’establishment newyorchese rivelano in maniera evidente il processo di svuotamento dei meccanismi democratici del sistema politico americano. Un sistema prodotto e dominato da una ristretta élite finanziaria che controlla i meccanismi di selezione del potere grazie ad illimitate disponibilità economiche. Nel caso di New York e di Bloomberg, poi, l’aristocrazia finanziaria del paese si è fatta carico direttamente della gestione della cosa pubblica, bypassando i dispositivi talvolta scomodi di quel che resta della democrazia rappresentativa.

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