di Michele Paris

Dopo giorni di annunci minacciosi e intimidazioni da parte degli Stati Uniti e degli alleati occidentali nei confronti dell’Iran, alle porte di Ginevra è andato finalmente in scena il primo round di colloqui multilaterali e bilaterali, per cercare di dirimere la questione del nucleare di Teheran. In quasi otto ore di discussioni, che hanno incluso anche il primo storico faccia a faccia ad alto livello tra USA e Iran dalla rivoluzione del 1979, sono stati fatti almeno due primi passi importanti verso una risoluzione pacifica della questione. Una disponibilità iraniana forse inaspettata però a Washington, da dove, nonostante tutto, si è continuato a minacciare nuove sanzioni in caso di mancata collaborazione in tempi molto brevi.

L’incontro tra il negoziatore iraniano Saeed Jalili e il cosiddetto gruppo P5+1, composto dai rappresentanti dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina) più la Germania, non era nato però sotto i migliori auspici, anche se alla vigilia del meeting aveva contribuito ad allentare le tensioni la concessione da parte dell’amministrazione Obama di un visto d’ingresso negli USA al ministro degli esteri di Teheran, Manoucher Mottaki, per visitare il proprio ufficio di rappresentanza a Washington presso l’ambasciata pakistana.

In coda al G20 di Pittsburgh della settimana scorsa, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna avevano annunciato con grande enfasi la presunta scoperta di un impianto segreto iraniano per l’arricchimento dell’uranio nei pressi della città santa di Qom. Nel rispetto del Trattato di Non-Proliferazione, del quale l’Iran è firmatario, Teheran aveva però comunicato all’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) l’esistenza della seconda costruzione - dopo quella di Natanz, già sottoposta ad ispezioni - quattro giorni prima della “rivelazione” americana. Il trattato, infatti, prevede la comunicazione alla IAEA di un eventuale nuovo sito almeno 180 giorni prima dell’invio ad esso di combustibile nucleare per essere trattato.

I governi e i media occidentali avevano tuttavia immediatamente sfruttato una dichiarazione del direttore dell’agenzia, Mohammed El Baradei, nella quale sosteneva che l’Iran stava violando il Trattato di Non-Proliferazione, dal momento che una modifica di esso stabiliva la comunicazione di un nuovo sito nucleare 180 giorni prima della costruzione dello stesso. Peccato però che tale modifica non sia mai stata approvata dal governo iraniano e, nel corso della stessa intervista alla CNN indiana, El Baradei abbia chiarito come a tutt’oggi non sussistano prove che l’Iran stia procedendo nella produzione di armi nucleari. Una versione, quest’ultima, puntualmente celata all’opinione pubblica occidentale.

La struttura di Qom è stata dunque utilizzata per lanciare una serie di ultimatum verso il governo di Ahmadinejad e per minacciare nuove sanzioni che, se adottate, interesserebbero, tra l’altro, l’accesso al credito e le forniture di petrolio raffinato all’Iran. Per raccogliere consensi all’interno del Consiglio di Sicurezza attorno a provvedimenti più duri per Teheran, da dove si continua a sostenere che il proprio programma nucleare viene sviluppato esclusivamente per scopi pacifici, gli Stati Uniti hanno messo allora in atto forti pressioni sui paesi più recalcitranti (Russia e Cina), giungendo un paio di settimana fa anche alla rinuncia dell’installazione di uno scudo missilistico in Repubblica Ceca e Polonia, fortemente osteggiato da Mosca.

La trattativa di Ginevra per gli USA avrebbe dovuto così ruotare esclusivamente attorno alla questione del nucleare di Teheran, mentre da parte iraniana si puntava su un’agenda decisamente più ampia e tesa ad includere altri temi importanti come la non-proliferazione, la situazione in Afghanistan e la riforma delle Nazioni Unite. I cinque membri del Consiglio di Sicurezza - tutte potenze nucleari (più la Germania) che da tempo ha completato il processo di arricchimento che si cerca di bloccare in Iran – hanno anche già stabilito di “intensificare il dialogo nelle prossime settimane” ed hanno dato appuntamento a Saeed Jalili, il quale oltre guidare il negoziato per il suo paese è anche il segretario del potente Consiglio Nazionale per la Sicurezza iraniano che risponde direttamente all’ayatollah Khamenei, a fine ottobre per un secondo confronto.

Nel corso dei colloqui, che hanno visto anche un faccia a faccia di 45 minuti tra il rappresentante di Teheran e il sottosegretario di Stato americano, William J. Burns, i paesi del "gruppo 5+1" hanno alla fine ottenuto due concessioni decisive, quanto meno per permettere alla diplomazia di guadagnare tempo e scongiurare, per il momento, il ricorso a sanzioni più pesanti. Jalili ha infatti accettato di aprire nelle prossime due settimane il sito nucleare di Qom alle ispezioni dell’IAEA - El Baradei sarà infatti a Teheran nei prossimi giorni - e di inviare la maggior parte del proprio uranio arricchito in Russia per trasformarlo in carburante necessario ad alimentare un piccolo reattore da utilizzare per scopi di cura e ricerca medica.

Attualmente, le riserve iraniane di uranio sono state arricchite ad un livello stimabile tra il 3,5 e il 5%. Per utilizzare il materiale in ambito medico è necessario invece ottenere un arricchimento del 19,75%, mentre per ottenere un ordigno nucleare si deve giungere fino al 90%. Una situazione che chiarisce a sufficienza, a dispetto delle pretese occidentali, quanto l’Iran sia lontano dal possedere uranio arricchito sufficiente per un’arma nucleare. Se l’uranio di cui dispone verrà inoltre spedito all’estero per essere trattato, parecchi altri mesi ancora potrebbero passare prima che l’Iran possa tornare a raccogliere tutte le sue scorte nei siti dichiarati.

Nonostante le concessioni strappate, il presidente Obama in prima persona, da Washington, ha lanciato un nuovo ultimatum nei confronti dell’Iran, ricalcando i toni del suo predecessore nelle settimane precedenti all’invasione dell’Iraq. Gli Stati Uniti insomma sono “pronti ad aumentare la tensione”, ha minacciato l’inquilino della Casa Bianca, “se da Teheran non ci si muoverà rapidamente” verso il rispetto degli obblighi riguardo al nucleare.

L’atteggiamento bellicoso dell’amministrazione americana, in sostanza, è rimasto invariato rispetto alla vigilia dei colloqui di Ginevra e la richiesta di permettere agli ispettori internazionali un “accesso completo e senza restrizioni” al sito di Qom, situato nei presso di una base militare, rischia di complicare il negoziato. L’obiettivo finale degli Stati Uniti inoltre è sempre stato quello di giungere ad una totale sospensione dell’arricchimento dell’uranio, una pretesa che l’Iran si è invece sempre rifiutato di prendere in considerazione.

Una strategia, quella americana, che può apparire mirata a mantenere alta la pressione, fino al raggiungimento di risultati concreti, su un paese con il quale non ha rapporti diplomatici da tre decenni e il livello di diffidenza rimane estremamente elevato. Ma che sembra utilizzare, secondo alcuni, anche la questione del nucleare come un pretesto per spingere l’Iran, attraverso nuove sanzioni, verso una transizione ad un regime più docile nei confronti degli Stati Uniti e della loro volontà di consolidare la propria influenza in Medio Oriente e in Asia Centrale.

La lezione dell’Iraq sembra essere già stata dimenticata dalla nuova amministrazione a Washington, come ha fatto notare qualche giorno fa, dalle pagine del New York Times, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale per il Medio Oriente Flynt Leverett, il quale ha ricordato come la strategia della minaccia di nuove sanzioni non farà che aumentare la frustrazione iraniana o, nella peggiore delle ipotesi, condurre ad un conflitto militare. Secondo Leverett, la politica più efficace consisterebbe al contrario nella ricerca di un riallineamento strategico con l’Iran sull’esempio di quello condotto da Nixon nei confronti della Cina negli anni Settanta e secondo il quale gli USA dovrebbero muovere dei passi concreti per assicurare Teheran che la normalizzazione dei rapporti bilaterali sarebbe nel suo stesso interesse.

Il riavvicinamento tra Stati Uniti e Iran, tuttavia, comporterebbe anche un certo grado di conflittualità con quei paesi europei (per non parlare di Russia e Cina) che godono già di proficui rapporti commerciali con Teheran. Alimentare le tensioni potrebbe invece indebolire in qualche modo le relazioni tra di essi e l’Iran, consegnando agli americani maggiore spazio di manovra in caso di un cambiamento di regime nel prossimo futuro. Forse anche per questo, minacce e provocazioni, piuttosto che un piano mirato ad un ristabilimento graduale di pacifiche relazioni diplomatiche, promettono di rimanere una costante della retorica statunitense nei confronti dell’Iran anche nei mesi a venire.

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy