di Michele Paris

Le elezioni del 30 agosto scorso per rinnovare i 480 seggi della Camera Bassa della Dieta Nazionale giapponese, come è ormai noto, hanno portato al potere il Partito Democratico (DPJ) di Yukio Hatoyama, ponendo fine al dominio quasi ininterrotto per oltre cinquant’anni del Partito Liberal Democratico (LDP) del primo ministro uscente Taro Aso. Nonostante l’entusiasmo del trionfo, peraltro ampiamente determinato dalla situazione economica e dalla profonda impopolarità del governo conservatore in carica, abbia alimentato qualche speranza per un possibile spostamento a sinistra del quadro politico nipponico, i primi segnali lanciati dai leader del partito vincente e dai candidati ad entrare nel gabinetto in fieri non promettono nulla di buono. Il Partito Democratico giapponese era stato fondato nel 1998 in seguito alla fusione di quattro partiti di opposizione. Nel 2003 era giunta poi un’altra fusione, quella con il Partito Liberale di centro-destra, che avrebbe contribuito in gran parte a definire l’identità dell’attuale DPJ. Dopo quest’ultima unione, il nuovo Partito avrebbe ottenuto un discreto incremento nelle elezioni generali del 2003, per poi conquistare la maggioranza nella Camera Alta quattro anni più tardi, un successo che preannunciava chiaramente la vittoria a valanga centrata quest’anno nella ben più influente Camera Bassa.

Il candidato alla guida del prossimo governo, Yukio Hatoyama, aveva iniziato la sua carriera proprio nel Partito Liberal Democratico, per il quale ha occupato un seggio in Parlamento per un decennio, prima di fondare assieme al fratello il primo nucleo del futuro DPJ. Composto da un improbabile amalgama di ex liberal-democratici e socialisti di varie fazioni, il prossimo partito di governo vede tuttavia ai vertici della propria struttura dirigenziale i vecchi membri del LDP, come il potente ex segretario Ichiro Ozawa, costretto alle dimissioni lo scorso maggio a causa di uno scandalo legato a finanziamenti elettorali illeciti ma ancora molto influente dietro le quinte.

Con queste premesse, ha destato relativa sorpresa una recente intervista al Financial Times di un altro grande vecchio del Partito Democratico, il 77enne Hirohisa Fujii, candidato numero uno ad assumere la carica di Ministro delle Finanze nel nuovo governo Hatoyama. Dalle pagine del giornale britannico, Fujii ha voluto rassicurare la comunità degli affari del proprio paese, così come gli investitori esteri, precisando senza esitazione come il compito principale ed immediato della nuova amministrazione sarà quello di dimostrare “responsabilità” in ambito fiscale. Tradotto: tagli ai piani di spesa messi in atto dal governo precedente per fronteggiare la crisi economica e addio alle promesse riforme del lavoro per arginare la precarietà diffusa, soprattutto tra i giovani.

Secondo il parere del Ministro delle Finanze in pectore, sarà necessario infatti procedere con una revisione d’urgenza del bilancio straordinario giapponese, così da apportare “sostanziali tagli” soprattutto ai 31 miliardi di dollari (2.900 miliardi di yen) stanziati per nuovi lavori pubblici e ai 47 miliardi di dollari (4.300 miliardi di yen) di ulteriori fondi di spesa messi a disposizione del governo. Nel corso della campagna elettorale, il Partito Democratico aveva annunciato al contrario una serie di promesse che comprendevano: contributo mensile per le famiglie a basso reddito con figli, sussidi per il settore agricolo, azzeramento delle tasse per l’accesso alle scuole superiori pubbliche, innalzamento del salario minimo, stop all’aumento delle tasse al consumo per i prossimi quattro anni e, soprattutto, abolizione dei contratti di lavoro temporaneo nel settore manifatturiero. Un programma cioè che, se attuato, innalzerebbe la spesa pubblica di quasi 17 mila miliardi di yen all’anno.

Una volte conquistata la maggioranza parlamentare però, le pressioni dei grandi interessi economici giapponesi sul Partito Democratico hanno cominciato a intensificarsi e, inevitabilmente, la vera natura della sua leadership è finita con l’emergere in tutta la sua evidenza. Lo stesso Fujii, per oltre due decenni potente burocrate del Ministero delle Finanze nipponico, è d’altra parte anch’egli un ex deputato del Partito Liberal Democratico e appare estremamente sensibile ai richiami per il contenimento del deficit pubblico del proprio paese, pericolosamente indirizzato verso il 170% del PIL.

Lo spirito marcatamente pro-business del DPJ s’intravede anche nella nomina, già andata in porto, dell’ex leader del partito, Naoto Kan, all’Ufficio per la Strategia Nazionale. Un incarico tutto nuovo che dovrebbe rafforzare il ruolo del governo nel fissare l’agenda politica nazionale, un compito in passato troppo spesso lasciato nelle mani della influente burocrazia statale. Kan, ex socialista e già Ministro della Salute in un governo di coalizione nel 1996, è infatti uno dei principali fautori di un riformismo “business-friendly” nel proprio partito ed ha già diffusamente criticato i presunti sprechi dei ministeri.

Nonostante la retorica elettorale insomma, il peso di una crisi economica che sta colpendo il Giappone in maniera più insistente rispetto agli altri paesi industrializzati finirà ancora una volta sulle spalle dei lavoratori e dei cittadini a basso reddito. Prospettiva inevitabile, alla luce di un’annunciata riduzione del deficit che comporterà licenziamenti nel settore pubblico, tagli ai servizi sociali e incremento delle tasse al consumo. L’obiettivo di un nuovo governo teoricamente spostato verso il centro-sinistra, (ma soprattutto al centro) in definitiva, sarà sempre quello di riuscire a far digerire alle classi già maggiormente penalizzate le conseguenze di una politica di rigorismo fiscale nei prossimi anni.

Una strategia rischiosa tuttavia, per un partito giunto al potere più per l’insofferenza nei confronti del LDP che per meriti propri in un paese che ha visto contrarre la propria economia del 3,8% nell’ultimo trimestre del 2008 e ancora del 4% nel primo quarto del 2009. Le esportazioni, vero motore dell’economia giapponese, sono crollate e la disoccupazione ha toccato il livello record del 5,7%. A complicare le cose per Hatoyama c’è anche il ricordo della breve esperienza di governo degli anni Novanta di una fragile coalizione che spedì all’opposizione l’LDP per la prima volta dalla sua fondazione, nel 1955. Un esperimento che si concluse in maniera disastrosa anche a causa del tentativo dello stesso Hirohisa Fujii di introdurre un aumento della tassazione sui beni di consumo.

Il governo nascente potrà però contare questa volta su una maggioranza ben più solida e agli ex membri del Partito Socialista e ai sindacati che hanno appoggiato il DPJ in campagna elettorale sarà delegato il compito di contenere le resistenze che verosimilmente manifesteranno a breve l’elettorato e le associazioni di sinistra. Addirittura, anche il docile Partito Comunista giapponese (JCP), tramite il suo presidente Kazuo Shii, ha già assicurato di voler agire da “opposizione costruttiva” nei confronti del nuovo gabinetto.

La fine del dominio monopartitico liberal-democratico in definitiva, come c’era da aspettarsi, non determinerà nemmeno in Giappone uno spostamento sostanziale dell’agenda politica governativa. “Un cambio di governo” d’altronde, come ha ricordato il futuro numero uno delle Finanze nipponiche, “non è una rivoluzione”. Le élite economiche del paese possono ancora dormire sonni tranquilli.

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