di Michele Paris

Sono molte le critiche piovute in questi mesi da sinistra su Obama per non aver definitivamente abbandonato i metodi discutibili, quando non palesemente illegali, della precedente amministrazione nella lotta al terrorismo. Uno di questi rimproveri riguarda il mancato adeguamento del governo americano a numerose ordinanze di giudici federali che hanno disposto la liberazione di detenuti nel famigerato carcere di Guantánamo. La maggior parte dei sospettati di terrorismo, ai quali è stato garantito il diritto di habeas corpus e la cui detenzione è stata riconosciuta come illegittima, risultano infatti ancora alloggiati presso la base navale americana in territorio cubano, con il sistema giudiziario tristemente privo di strumenti concreti per applicare le proprie sentenze. Infliggendo un colpo pesantissimo alla strategia anti-terrorismo del presidente Bush, nel giugno del 2008 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva stabilito che ai prigionieri di Guantánamo andava riconosciuto il diritto costituzionale, in precedenza sempre negato, di ricorrere in un tribunale federale in merito alla loro detenzione. Con questo verdetto veniva improvvisamente cancellata quella sezione del Military Commissions Act, approvato dal Congresso nel 2006, che autorizzava processi di fronte a tribunali militari per la violazione del diritto di guerra. L’allora inquilino della Casa Bianca, in quel momento ospite di Berlusconi a Roma, reagì con amarezza alla decisione, prevedendo una valanga di richieste da parte dei 270 detenuti che ancora soggiornavano a “Gitmo”, per apparire di fronte ad una corte civile americana e per avere finalmente accesso alle prove portate contro di loro.

Dalla scorsa estate, infatti, sono state 150 le domande di habeas corpus presentate dagli ospiti di Guantánamo, delle quali 35 già esaminate. Di queste, 29 sono andate a buon fine, con un giudice federale che ha decretato l’illegalità della detenzione dei prigionieri. Nonostante l’ordine d’immediata liberazione, 20 dei 29 detenuti in questione si trovano però tuttora sull’isola caraibica. Nelle loro sentenze, i giudici hanno ripetutamente sottolineato l’incapacità del governo americano di provare la veridicità delle accuse mosse contro i sospettati oppure l’acquisizione di prove tramite tortura o inaffidabili testimonianze di seconda mano.

Uno dei casi che ha sollevato maggiore indignazione è stato quello riguardante il detenuto afgano Mohammed Jawad, arrestato nel 2002 - ad un’età tra i 12 e i 14 anni - con l’accusa di aver lanciato una granata contro un convoglio militare americano. Dopo anni trascorsi a Bagram, in Afghanistan, e successivamente a Guantánamo, a metà luglio di quest’anno la detenzione di Jawad è stata dichiarata illegale, poiché la sua confessione era stata estorta con percosse e minacce di morte da parte delle autorità afgane che lo avevano inizialmente arrestato. Dietro le pressioni delle organizzazioni per i diritti umani, il giovane prigioniero è stato liberato e rimpatriato a fine agosto.

L’ostacolo principale alle scarcerazioni, e alla chiusura del campo di detenzione, come promesso da Obama all’indomani del suo insediamento, rimane la possibile destinazione dei prigionieri. Con il cambio della guardia alla Casa Bianca, gli Stati Uniti sono riusciti a convincere qualche paese ad ospitare un certo numero di detenuti sul proprio territorio, ma una soluzione definitiva appare ancora lontana. Il dilemma che riguarda i sospettati di nazionalità yemenita, un centinaio sui circa 230 ancora a Guantánamo, è un esempio significativo delle delicate decisioni che il governo americano è chiamato a prendere in questi mesi.

Molti di essi infatti potrebbero essere rilasciati immediatamente, ma i timori sono legati al fatto che nello Yemen potrebbero partecipare nuovamente alle operazioni dei gruppi legati ad Al Qaeda che operano nel paese mediorientale. A partire dallo scorso mese di aprile, sette cittadini yemeniti hanno ottenuto altrettanti ordini di scarcerazione da tribunali federali americani ma, malgrado ciò, l’amministrazione Obama non si è ancora adeguata alle sentenze, pur non essendo stata in grado di provare la pericolosità dei detenuti in questione.

Un discorso a parte meritano poi i prigionieri di etnia uigura, che rischiano di andare incontro alla repressione cinese nel caso fossero rimpatriati nel loro paese di origine. Anche in questo caso, nell’ottobre del 2008, 17 uiguri sono stati dichiarati illegittimamente detenuti a Guantánamo. Il loro trasferimento negli USA è stato però bloccato da una corte d’appello, che ha dichiarato come l’ingresso nel paese riguardi l’immigrazione, passando perciò il caso al governo. Quest’estate infine, quattro musulmani cinesi hanno trovato rifugio alle Bermuda ma i rimanenti 13 attendono ancora una sentenza della Corte Suprema in stato di detenzione.

Ai problemi incontrati nel convincere i paesi esteri ad ospitare una parte di quel gruppo di sospettati di terrorismo, che l’ex Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld aveva definito come “il peggio del peggio”, si è aggiunta poi la resistenza dei membri del Congresso americano ad accettare un possibile trasferimento sul suolo americano. La preoccupazione, peraltro quasi sempre infondata, di ospitare in un carcere del proprio distretto elettorale un detenuto per crimini di guerra, ha spinto così i parlamentari di entrambi gli schieramenti ad approvare una legge che obbliga il presidente a trasmettere al Congresso un rapporto dettagliato per ogni possibile trasferimento o scarcerazione, prima di prendere una decisione definitiva.

Al di là della sistemazione dei detenuti in vista della possibile chiusura di Gitmo, la mancata applicazione delle sentenze di scarcerazione dei tribunali federali ha aperto un grave conflitto di competenze tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Secondo alcuni, infatti, se il governo continuerà a tenere in carcere i prigionieri la cui detenzione è stata dichiarata illegale o se, peggio ancora, il Congresso dovesse approvare una norma che rinvia indefinitamente gli ordini di liberazione emanati da una Corte, non potrà che verificarsi una nuova serie di richieste di appello. In questo caso, però, a essere messa in discussione sarebbe la costituzionalità di una condotta, o di un eventuale provvedimento, che infrange la divisione stessa dei poteri giudiziario, esecutivo e legislativo.

L’inaccettabilità di una situazione che vede il governo americano continuare a tenere in carcere un detenuto senza alcun fondamento legale è in ogni caso ben più che evidente. Altrettanto chiara, e scoraggiante, è anche la continua mancata accettazione degli standard legali democratici da parte di Washington, nonostante i proclami circa la rinuncia dei metodi impiegati regolarmente durante i due mandati di Bush e Cheney.

Le incertezze sorte attorno al destino di Guantánamo e dei suoi detenuti risultano addirittura amplificate dal caso del campo di prigionia di Bagram, situato presso una base aerea a nord di Kabul, in Afghanistan. Qui sarebbero ospitati in pessime condizioni circa 600 detenuti, la maggior parte dei quali verosimilmente di nazionalità afgana, anche se il governo americano continua a rifiutarsi di rendere pubblica qualsiasi informazione sulla loro identità. L’annuncio di Obama di voler chiudere entro l’inizio del 2010 il carcere sull’isola di Cuba non è stato esteso a quello di Bagram, che appare di gran lunga meno di frequente nei media americani, per non parlare delle altre strutture segrete disseminate in altre parti del pianeta.

Anche per i fantasmi di Bagram si prospetta tuttavia una possibile evoluzione simile a quella di Guantánamo. Ad aprile infatti, un giudice federale del District of Columbia ha accolto la richiesta di tre detenuti nella prigione afgana, stabilendo che essi possiedono “virtualmente” gli stessi identici diritti garantiti ai prigionieri di Guantánamo dalla sentenza della Corte Suprema del 2008. Il diritto di habeas corpus dei detenuti a Bagram, sebbene fissato entro limiti più ristretti, è stato però ancora una volta contestato dall’amministrazione Obama che si è appellata al verdetto, tirandosi addosso inevitabilmente una nuova valanga di critiche.

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