di Fabrizio Casari

La Bibbia era di Abramo Lincoln, quasi un testimonio diretto di quanti e quali passi l’America ha compiuto nella lotta contro la segregazione razziale. L’ha ricordato lo stesso Obama: “Sessant’anni fa, mio padre non poteva nemmeno essere servito a un ristorante”. La mano, invece, era quella del 44esimo Presidente degli Stati Uniti. Obama Hussein Barak, si è finalmente insediato alla Casa Bianca, eseguendo lo sfratto decretato dall’elettorato al penultimo rampollo della dinastia Bush. Sfidando una temperatura polare, circa due milioni di persone hanno accompagnato Obama nel suo giorno più lungo, trasformando la saporifera e lobbista Washington nella capitale popolare dell’America di ieri. Mai la Casa Bianca era stata teatro di una manifestazione così grande; mai, dalla marcia di Martin Luther King, tanti afroamericani avevano invaso la capitale; mai l’insediamento di un presidente era stato un evento politico così partecipato a livello popolare. Tanta partecipazione rimanda chiaramente alle tante attese che la nuova presidenza suscita nel popolo americano, e non solo in quello americano. E, sebbene il protocollo e la diplomazia suggerissero sorvolare sugli elementi più critici della presidenza passata, Obama non ha risparmiato critiche durissime all’amministrazione uscente. Le parole con le quali il nuovo presidente si é presentato agli americani e al mondo intero sono risuonate diverse, opposte persino, a quelle che otto anni di buio della democrazia ci avevano abituato ad ascoltare dalla Casa Bianca. E aldilà dell’inevitabile retorica, Obama, appunto, non ha voluto perdere la straordinaria occasione per ricordare gli impegni presi. Recupero economico, riforma del sistema sanitario e lotta alla disoccupazione; ambiente, Irak e Afghanistan, Guantanamo, rapporti internazionali, dialogo con l’Islam.

“Una nazione non può prosperare se favorisce solo i più prosperi” ha detto il Presidente degli Stati Uniti, indicando un cammino che vedrà investimenti poderosi nell’infrastruttura del paese per stimolare un’economia debilitata. Edilizia per costruire ed ammodernare edifici pubblici e scuole; e poi crediti fiscali per le imprese che generano lavoro, riduzione delle imposte per i lavoratori dipendenti e ampliamento dei sussidi di disoccupazione. Sempre sul terreno del welfare, Obama lancia la sfida alle lobby della salute, indicando come priorità la riduzione dei costi delle assicurazioni sanitarie e offrendo allo stesso tempo, a coloro che non possono permettersele, un nuovo piano più accessibile che renda “Medicare” un servizio sanitario degno di tal nome. In questo senso, le nomine annunciate, prima tra tutte quella di Tom Daschle, sembrano indicare la voglia di fare sul serio. A indiretta, parziale conferma, il crollo di Wall Street proprio nel giorno dell’inaugurazione della nuova presidenza. Gli speculatori proprio non si fidano.

Anche sull’ambiente sembra davvero finita l’epoca della famiglia Bush, che ha stracciato il Protocollo di Kyoto per dare impulso alle produzioni inquinanti civili e militari destinate a sostenere le speculazioni delle lobbies petrolifere e del complesso militar-industriale. Obama ha confermato le promesse fatte in campagna elettorale: entro il 2012, almeno il 10% del fabbisogno energetico degli Usa dovrà provenire da fonti rinnovabili di energia. Investimento di oltre 150 miliardi di dollari in combustibili alternativi nei prossimi dieci anni e lavoro immediato per stabilire un programma di commercio di “diritti di emissioni” per ridurre le emissioni di gas. Come già nella Ue, il commercio dei diritti di emissione fa sì che le imprese che abbiano le emissioni più inquinanti siano obbligate ad acquistare i permessi da quelle che inquinano meno.

Forte e non scontato, il messaggio all’Islam, al quale propone "rispetto e ascolto" e che promette "di dare la mano se voi abbasserete il pugno". Un passaggio che pare, tra l'altro, voler costruire la cornice nella quale operare i cambiamenti di politica estera a cominciare dal progressivo ritiro dall’Irak e allo spostamento delle truppe sul terreno afgano. Ci sarà modo per analizzare un cambio di strategia che comporta, come architrave, il tentativo di dividere il mondo islamico, ma certo è che, anche su questo terreno, appare forte la discontinuità con l’Amministrazione Bush. Curioso, forse simbolico che, mentre si accingeva a giurare e a pronunciare queste parole, l’ex vice-presidente, Dick Cheney – del gruppo degli Stranamore l’unico con Condoleeza Rice a non essersi dimesso prima - lasciava la Casa Bianca su una sedia a rotelle.

E poi Guantanamo, la vergogna dell’America. Il nuovo presidente non ha dubbi: Guantanamo va chiusa. Ne va della decenza del paese. In una recente intervista a Time Obama disse: “Se nei prossimi due anni la mia amministrazione non avrà chiuso Guantanamo, non avrà posto fine alla tortura e restaurato un equilibrio tra le nostre esigenze di sicurezza e la nostra Costituzione, allora avrò fallito”.

E anche i rapporti internazionali sembrano segnare la profonda discontinuità con l’amministrazione Bush. Il primo, non secondario elemento, è che Bush era giudicato unanimemente un idiota pericoloso: il segreto disprezzo delle cancellerie di tutto il mondo nei suoi confronti si palesò finalmente palesato in occasione dell’ultimo g-20, quando nessuno dei capi di Stato presenti volle stringere la mano al texano ormai ex-presidente. Barak Hussein Obama, popolarissimo ovunque, gode invece della stima pressoché incondizionata dei leader internazionali, europei in testa. Obama ha ribadito a più riprese come la sua amministrazione cercherà un dialogo più serrato con la comunità internazionale e i teatri di crisi, Medio Oriente tra tutti, potrebbero risentire positivamente di una governante condivisa.

Da domani inizia quindi il cammino della nuova presidenza. Un cammino che non sarà semplice e che dovrà essere misurato sulla relazione possibile tra le ambizioni di cambiamento e la difesa strenua dei loro interessi da parte dei poteri forti. Sarebbe davvero ingeneroso non credere agli impegni che la nuova presidenza statunitense ha preso davanti ai cittadini americani e al mondo intero; ma sarebbe altresì ingenuo ritenere che l’impero, per quanto in crisi profonda, rinunci al dominio planetario in nome della democratizzazione; che possa insomma sopportare un mondo multipolare che soppianti l’unipolarismo che, dal 1989 ad oggi, è stato la cifra assoluta del comando globale statunitense.

La crisi economica, le sconfitte militari e la crisi di leadership politica che hanno messo in ginocchio il gigante a stelle e strisce consentono però oggi ai paesi emergenti e, in parte, alla stessa Europa, un livello di autonomia politica prima impensabile. Gli americani hanno trovato il loro comandante in capo, ma che questo diventi anche il leader della comunità internazionale, è tutto da vedere.

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