di Eugenio Roscini Vitali

Sono cinque i soldati delle Forze di Difesa Israeliane che hanno perso la vita nei primi tre giorni d’invasione della Striscia di Gaza, quattro dei quali uccisi dal fuoco amico, colpiti durante gli scontri occorsi contro le formazioni combattenti di Hamas; 575 i palestinesi morti dall'inizio dell'operazione “Piombo fuso” (molti di più se si pensa ai corpi che potrebbero essere ancora sul campo di battaglia), almeno 150 i civili, moltissime le donne e bambini, quasi tremila i feriti. Dopo otto giorni di assedio e tre di guerra aperta e nonostante il tributo di sangue pagato dai civili arabi ed ebrei, il primo obiettivo dell'attacco non è ancor stato raggiunto. I razzi palestinesi continuano a cadere su Israele e il range si allunga enormemente, arrivando addirittura a meno di 30 chilometri dalla periferia sud di Tel Aviv: l'ultimo, che si è abbattuto sul centro abitato di Gedera, ha ferito lievemente un neonato di tre mesi; più di 40 i Grad da 122 mm e i Qassam da 105 mm sparati lunedì verso Ashkelon, Ashdod, Sderot, Kiryat Malakhi, Ofakim, Netivot e Be'er Sheva. Nelle ultime ore l'offensiva militare israeliana si sta facendo più intensa e decisa, quasi a voler demonizzare la fallimentare incertezza che nell'estate del 2006 trasformò l'invasione del Libano meridionale in una cocente sconfitta. Le truppe di Tsahal hanno circondato Gaza e furiosi combattimenti si sono avuti nei quartieri periferici della città; i carri armati sono entrati a Rafah e Khan Younis, la più grande città del sud della Striscia e violenti scontri si sono registrati a Deir al-Balah. La Striscia è un campo di battaglia: le testimonianze tracciano un quadro devastante di morte, distruzione e panico. La popolazione è alla fame, gli ospedali sono quasi senza medicinali, centinaia i palestinesi che cercano riparo nelle scuole, neanche esse sicure.

Nel campo profughi di Chati e a Gaza i bombardamenti hanno centrato due istituti gestiti dalle Nazioni Unite. Sul piano umanitario la crisi è totale. Il Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR) denuncia un numero crescente di morti e feriti. Molte sono le infrastrutture civili e gli ospedali colpiti dalle operazioni militari israeliane e anche se l'accesso al territorio è stato agevolato i soccorsi non riescono a raggiungere i centri di assistenza. I bombardamenti hanno distrutto tre ospedali mobili diretti a Gaza, strutture fornite dell'organizzazione umanitaria danese “Dan Church Aid” che venivano trasportate su camion recanti le indicazioni previste per i mezzi di soccorso.

Come condizione chiave per il cessate il fuoco, Israele chiede che ad Hamas sia impedito di riarmarsi, presupposto difficile se si pensa a cosa è accaduto negli ultimi 40 mesi. Dopo 38 anni di occupazione, nel 2005 lo Stato ebraico ha fatto una mossa che molti credevano risolutrice per la pace nel vicino Medio Oriente, un momento storico nelle relazioni tra Israele e Palestina: ha ritirato le sue truppe ed ha costretto più di ottomila coloni a lasciare la Striscia. Invece, da quel giorno è iniziato il blocco di Gaza. Un blocco che si è intensificato subito dopo il gennaio del 2006, quando Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya (Hamas) ha vinto a sorpresa le elezioni parlamentari palestinesi; un blocco che si è trasformato in totale isolamento dopo il 14 giugno 2007, quando il movimento religioso islamico e Fatah si sono affrontati sul terreno per il controllo del governo dei Territori. Un blocco che è diventato come un cappio quando ad appoggiarlo è stata quella parte della comunità internazionale che, nel novembre 2007, ha sostenuto il presidente americano George W. Bush nell’escludere Hamas dalla Conferenza di Annapolis.

Nelle ultime ore gli sforzi internazionali perché gli scontri si fermino si stanno intensificando e da Sharm el Sheikh e da Damasco potrebbe arrivare la soluzione alla crisi. Anche se il portavoce del primo ministro israeliano, Ehud Olmert, ha detto che Israele non accetterà una tregua fin quando non verrà assicurato il disarmo di Hamas, il presidente egiziano Hosni Mubarak tira dritto per la sua strada e propone un cessate il fuoco immediato, la contemporanea fine del blocco della Striscia e la creazione di corridoi di sicurezza per gli aiuti alla popolazione di Gaza. Dalla Siria gli fa eco il presidente francese, Nicolas Sarkozy, il più attivo tra i leader europei che come al solito si muovono in ordine sparso e senza un’obbiettivo comune.

Sarkozy non si è arrende al “No” del ministro degli Esteri israeliano, Tipzi Livni e, attraverso il presidente siriano, Bashar al Assad, cerca di convincere il leader politico di Hamas, Khaled Meshal, ad una soluzione di pace. Più caute le posizioni di Bruxelles e della Casa Bianca. Dopo la gaffe dei giorni scorsi, il presidente europeo di turno, il ceco Karl Schwarzenberg, intravede segnali positivi ma parla di tempi ancora lunghi; mentre da Washington, pur confermando la richiesta americana di un cessate il fuoco duraturo e sostenibile, Condoleezza Rice puntualizza il “legittimo diritto di Israele a difendersi”. Dal torpore si è risvegliato anche il neoeletto presidente Barack Obama che, dopo essersi detto molto preoccupato per le vittime civili del conflitto, ha spiegato che tornerà a parlare di politica estera da dopo il 20 gennaio, data del suo insediamento alla Casa Bianca.

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