di Bianca Cerri

E’ proprio vero, a volte basta cambiare nome alle cose per dare loro nuova dignità e magari anche quel tocco di trendy che non guasta mai. Prendiamo ad esempio il Whelly, un modulo abitativo per senzatetto creato da alcuni architetti italiani che si autodefiniscono “attenti al sociale”. Wheelly ha la forma di una ruota chiusa da un disco di gomma decorato ed è dotato di un grosso sacco interno studiato appositamente per contenere gli effetti personali del clochard. Gli ideatori assicurano che si tratta di un oggetto rivoluzionario. Le dimensioni, h. 150cm e larghezza 40cm, permettono una mobilità assoluta e i colori vivaci dei materiali si adattano perfettamente al contesto urbano. Detto altrimenti, il Whelly è molto più avanti rispetto ai vecchi cartoni e alle coperte di fortuna che i senzatetto allineano diligentemente sui marciapiedi per passarvi la notte. L’idea non è però nuovissima: nel 2005, un team di architetti tedeschi aveva già realizzato “Urban Nomad Shelter”, una specie di bozzolo gonfiabile per barboni molto somigliante al Wheely. Tuttavia da allora il cosiddetto “social design” si è molto evoluto ed i suoi sostenitori sono convinti che abbia favorito l’integrazione tra classi.

Anche fra gli stilisti di moda c’è una grande attenzione al problema dei senzatetto. Da questa nuova sensibilità è nata “15 below”, una giacca realizzata da un atetelier canadese che nasconde all’interno due ampie tasche nelle quali si possono infilare giornali appallottolati per difendersi dal freddo. Il Canada ha inverni molto rigidi e “15 below”, nelle intenzioni dei suoi creatori, salverà centinaia di esseri umani che vivono all’addiaccio nelle strade di Ottawa, Toronto, ecc. dalla morte per ipotermia. In California, dove le temperature sono molto più miti, gli studenti dell’Art Center College of Design hanno invece creato l’EDAR, decisamente il più avveniristico degli oggetti dedicati agli homeless.

Nato da un’idea del produttore cinematografico Peter Samuelson, EDAR è stato premiato dal Social Enterprise Institute come prodotto più innovativo nel campo del design sociale. Per arrivare al prodotto finito, che costa attualmente 500 dollari, ci sono voluti più di due anni. In pratica si tratta di un bidone dotato di quattro ruote alla base che ne facilitano il trasporto. Premendo un pulsante il sacco color rosso fuoco contenuto all’interno del bidone si apre a corolla formando un abitacolo. Sulle pareti dell’abitacolo c’è spazio sufficiente per contenere lattine, bottiglie vuote, vecchi giornali e tutti quegli oggetti che di solito i senzatetto accumulano per ricavarne qualche centesimo.

Peter Samuelson, che è nato in Gran Bretagna ma risiede con la famiglia in una villa a Beverly Hills, ebbe l’idea di realizzare un modulo abitativo mobile osservando alcuni dei tanti homeless che vivono accampati sui marciapiedi di Los Angeles. Come egli stesso ha raccontato alla stampa, vedere degli esseri umani dormire all’aperto su dei cartoni stesi sull’asfalto lo impressionò al punto che decise di fare subito qualcosa per alleviare il loro disagio. Chiese agli studenti dell’Accademia di Design di progettare un rifugio mobile leggero ma resistente.

Dopo alcuni tentativi a vuoto nacque EDAR, che sta per Everybody Deserves a Roof, ovvero tutti hanno diritto ad un tetto. Sottotitolo: thinking out of the box, pensare fuori dalla scatola. Tre mesi fa è ha avuto inizio il collaudo dei primi 60 esemplari, affidato ad altrettanti homeless scelti a caso tra i 72.000 disperati che bivaccano sulle strade di Los Angeles.

A fare da cavia c’è anche una giovane madre con due bambini di quattro e sei anni. Faceva la cuoca in una scuola ma dopo aver perso il lavoro non ha più potuto pagare l’affitto e oggi vive in mezzo alla strada assieme ai figli. Sopravvivono grazie ai buoni-pasto concessi dal governo alle famiglie al di sotto della soglia di povertà ma per avere un alloggio dovranno aspettare che l’agenzia per l’edilizia popolare valuti il loro caso ma nel frattempo c’è il rischio che i bambini vengano dati in adozione perché la madre non è in grado di provvedere al loro mantenimento.

Nel 2006, in California, era stato approvato un piano d’emergenza per l’edilizia che prevedeva uno stanziamento di quasi tre miliardi di dollari. Poi la autorità municipali ci hanno ripensato e i soldi sono stati utilizzati per costruire lo “L:A:Live”, un orrido complesso multimediale alla periferia di Los Angeles con sale cinematografiche, shopping center, locali di fast food, ecc.

Nel frattempo, Ben Rogovy, un ex-studente della University of Washington che oggi dirige un’agenzia di pubblicità ha avuto la folgorante idea di usare i senzatetto come spots commerciali viventi. Per i fautori del “mercato sostenibile” si tratta di una trovata geniale, in piena sintonia con i crismi della nuova “imprenditoria sociale”. Il procedimento è semplice: attaccare un messaggio pubblicitario a quei cartelli di cartone che i senzatetto usano per chiedere l’elemosina ai passanti. Rogovy assolda i suoi modelli agli angoli delle strade ed offre loro un compenso che va da 1 a 5 dollari al giorno per mendicare con il marchio dello spot bene in vista. In genere la trattativa si risolve in pochi minuti.

Secondo Elaine Fischer, portavoce del ministero del Lavoro USA, si tratta di “un’idea interessante oltre che unica nel suo genere”. Detto altrimenti: la legge americana vieta l’accattonaggio, ma lo tollera quando diventa “imprenditoria sociale”. Come avevamo premesso, basta cambiare nome alle cose per dare loro una nuova dignità.

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