di Michele Paris

Anche se costretto in troppe occasioni a piegarsi al volere dell’ala più conservatrice del proprio partito durante la campagna elettorale in corso, ciò che tuttora contraddistingue il senatore dell’Arizona John McCain nel giudizio di una buona parte dei cittadini americani, rimane la sua capacità mostrata in oltre un quarto di secolo di attività congressuale di andare contro ogni dogmatismo, di saper parlare in maniera diretta ai suoi elettori, di ammettere i propri errori e di saper ricavare lezioni importanti dalle sconfitte politiche. Per questo forse, l’aver abbracciato incondizionatamente l’aggressiva strategia di Karl Rove – che nel 2000 gli era verosimilmente costata la nomination a beneficio di George W. Bush – volta a sfruttare ogni linea d’attacco nei confronti del proprio avversario, ha causato la reazione negativa non solo di gran parte di quella stampa, conservatrice e liberal, che aveva contribuito a costruire la sua immagine di “maverick”, ma anche dell’elettorato indipendente che sembrava essere inizialmente un punto di forza della sua candidatura. La metamorfosi di McCain riflette d’altra parte quel conflitto tra riflessione e impulsività del suo modo di essere e che ha caratterizzato la sua carriera militare e politica, ma anche la sua vita privata. Una predisposizione all’imprevedibilità che gli attirò le critiche dei compagni di partito quando nel 1980 decise di abbandonare la prima moglie per sposare un’attraente ereditiera dell’Arizona di vent’anni più giovane, e che allo stesso tempo l’ha condotto ha operare scelte di campo spesso inaspettate o contraddittorie, come la nomina della sua vice – la governatrice dell’Alaska Sarah Palin, evidentemente priva dell’esperienza necessaria a ricoprire l’incarico e con la quale si era incontrato una sola volta prima della chiamata – e lo scorso settembre la decisione di interrompere la campagna elettorale per volare a Washington per fornire un contributo alla risoluzione della crisi finanziaria che alla fine si sarebbe rivelato del tutto inconsistente.

Il disagio di McCain ad impersonare un ruolo nel quale George W. Bush si era trovato invece perfettamente a suo agio nel 2000 e nel 2004 lo si è notato in tutta la sua evidenza nel corso dei tre dibattiti andati in scena a fianco di Barack Obama tra il mese di settembre e quello di ottobre. Il senatore repubblicano, il quale con i suoi 72 anni se eletto diventerebbe il più anziano presidente al suo primo mandato di tutta la storia degli Stati Uniti, è apparso infatti nervoso, raramente a suo agio nel contrastare un rivale sempre pacato, in certi momenti addirittura irrigidito a tal punto da faticare a scandire le frasi pronunciate.

In sostanza, un veterano della politica testato da una lunghissima militanza al senato – e da cinque anni e mezzo di detenzione in un campo di prigionia in Vietnam – costretto ad osservare impotente un politico poco più che quarantenne, inesperto e dalle dubbie frequentazioni, rubargli la scena e ostacolare la sua avanzata verso la conquista di una presidenza che sembrava spettargli di diritto.

John McCain potrebbe rivelarsi – o avrebbe potuto, stando ai sondaggi – un presidente aperto ad una produttiva collaborazione con un Congresso a maggioranza democratica, capace di far dimenticare il ceco unilateralismo dell’amministrazione Bush e, in definitiva, di limitare l’influenza nefasta dei falchi della destra del suo partito. Tutto questo avrebbe potuto realizzare, e potrebbe magari realizzare, il McCain che si era assicurato le primarie repubblicane già ai primi di febbraio e che in quel momento appariva il candidato ideale in un’annata nella quale tutto sembrava giocare a sfavore del “G.O.P. Party”.

Con il passare dei mesi tuttavia è emerso un altro McCain, in grado sì di conquistare il consenso della destra del partito, ma improvvisamente impossibilitato a raggiungere con il proprio messaggio quei moderati e repubblicani disillusi che lo avevano premiato e in lui avevano confidato precisamente per la sua capacità di disfarsi della pesante eredità dell’attuale presidente.

Frequentatore del senato americano a partire dalla fine degli anni Settanta sfruttando i suoi legami con i vertici della Marina, un McCain già sulla quarantina iniziava in quegli anni ad affiancare membri del Congresso in svariate missioni all’estero. Inizialmente poco più di un portaborse, il candidato repubblicano alla Casa Bianca riuscì nel 1982 a farsi eleggere alla Camera dei Rappresentanti per lo stato dell’Arizona, grazie soprattutto all’appoggio dell’allora senatore del Texas John Tower. Da allora la sua carriera politica si è svolta attorno ai temi più disparati.

Per sua stessa ammissione poco competente sulle questioni economiche – attitudine che ha indubbiamente pesato in questa campagna elettorale – McCain si è imbarcato di volta in volta in battaglie raramente di primo piano nel dibattito politico statunitense – dalla difesa dei diritti dei malati nei confronti delle compagnie di assicurazione alla lotta contro gli eccessi di spesa del governo federale – fino a giungere solo negli ultimi anni alle collaborazioni bi-partisan con esponenti democratici sui temi dell’immigrazione e del finanziamento pubblico alla politica.

Con una organizzazione sull’orlo della bancarotta a metà del 2007, il secondo tentativo di John McCain di conquistare la Casa Bianca sembrava destinato a fallire ancora prima dell’inizio della stagione delle primarie. Un taglio netto alle spese elettorali e, soprattutto, il relativo successo della nuova strategia adottata dall’amministrazione Bush in Iraq – il cosiddetto “surge” – e fortemente appoggiata dallo stesso McCain, hanno ridato nuova linfa alla sua corsa, permettendogli di sbaragliare gli avversari più accreditati – l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani e il miliardario mormone Mitt Romney. Il senatore dell’Arizona tuttavia sta pagando tuttora il suo totale sostegno all’invasione dell’Iraq e al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, il tutto aggravato dal rifiuto di prendere in considerazione una qualsiasi ipotesi di ritiro delle truppe americane a breve scadenza.

La reputazione di “maverick” che gli aveva permesso di conquistarsi le simpatie di numerosi membri del congresso liberal e indipendenti dopo le primarie del 2000 ha finito così per naufragare in una campagna elettorale fatta di colpi bassi e di ammiccamenti ai conservatori del partito repubblicano. La sua netta opposizione ai tagli alle tasse per le classi più agiate, avanzate da Bush qualche anno fa, si è trasformata in aperto sostegno, la lotta condotta contro i grandi interessi delle corporation e la loro influenza nella politica americana si è scontrata con la scelta di numerosi lobbisti entrati a far parte del suo staff elettorale, le critiche nei confronti dei giudici destrorsi della Corte Suprema sono svanite con la promessa di nominare, se chiamato a farlo durante la sua presidenza, di membri rigorosamente “pro-life”.

Difficile valutare se le possibilità di McCain di conquistare la Casa Bianca avrebbero potuto essere maggiori rispetto a quelle attuali ad una manciata di giorni dalle elezioni con una condotta diversa in campagna elettorale. Svanite rapidamente quelle poche settimane seguite alla convention durante le quali i sondaggi sembravano premiare un “ticket” repubblicano rinvigorito dall’apparizione del ciclone Palin, John McCain si è ritrovato invischiato poi nella resa dei conti tra le due anime di un partito in crisi. Una disputa che egli stesso ha peraltro contribuito in parte ad alimentare.

Il confronto tra quei conservatori ancorati all’appello populista e demagogico, modellato in maniera retorica sui valori dell’America bianca e tradizionalista e concretamente basato su un governo totalmente piegato alle esigenze del libero mercato, che ha permesso in sostanza a George W. Bush di trascorrere otto anni alla guida del paese, ed una nuova generazione di repubblicani consapevoli della necessità di cercare una nuova strada da percorrere includendo quei milioni di cittadini dimenticati dalle distorsioni del capitalismo senza regole, ha indubbiamente danneggiato il senatore dell’Arizona al di là delle sue responsabilità.

Altrettanto evidenti sono stati tuttavia i suoi errori e le sue responsabilità nel non essere stato in grado di individuare quel sentiero che pure appariva percorribile in un paese sostanzialmente moderato, nonostante la sciagurata gestione del potere di Bush e l’impetuosa avanzata democratica da un paio d’anni a questa parte. I dubbi attorno alla candidatura di Obama restano tali da rendere i più ancora sospettosi circa una sconfitta di McCain. Se le indicazioni dei sondaggi si riveleranno invece fondate, è probabile che il Partito Repubblicano andrà incontro ad un esilio forzato dal potere in America, un cammino necessario per ritrovare una nuova identità differente da quella forgiata negli ultimi decenni dalle icone del conservatorismo Barry Goldwater e Ronald Reagan. E contemporaneamente John McCain potrà provare a diventare l’uomo che – come aveva dichiarato all’indomani della sconfitta nelle primarie del 2000 – aveva sempre desiderato essere, probabilmente ben diverso però da quello visto in questa campagna elettorale.

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