di Carlo Benedetti

Putin e Lukashenko In Bielorussia le elezioni presidenziali che si sono svolte domenica scorsa hanno registrato la totale vittoria del Presidente uscente, il cinquataquattrenne Aleksandr Lukascenko. Un record di voti dell'82 per cento che ricorda le vecchie consultazioni "blindate" del periodo sovietico. Ma se in quei tempi le opposizioni (che pure esistevano a Minsk come nelle altre regioni dell'Urss) non trovavano la forza per uscire allo scoperto, ora il contesto politico della nuova gestione socio-istituzionale, ha evidenziato - pur con tutte le repressioni possibili - l'esistenza di un fronte unitario del "no". E le prove di tali "novità" sono evidenti: contro Lukascenko si sono battuti esponenti come il liberale Milinkievic, il socialdemocratico Kozulin e il filo-americano Gaidukevic; tutti sostenuti da una serie di coalizioni collegate anche agli ambienti dell'emigrazione bielorussa e ad agenzie dell'intelligence statunitense. Ne consegue che un'analisi reale della consultazione di domenica non può essere fatta solo sulla base dei risultati usciti dalle urne.
Proprio perché la spaccatura che si registra nel Paese - nel quadro generale della risaputa evanescenza delle ideologie - non consente valutazioni improvvisate. Non solo, ma ci ricorda che non si possono fare scommesse sul futuro se prima non si cominciano a raccogliere conclusioni relative all'esame del passato. Ed ecco che si scopre che in questi primi anni post-sovietici, caratterizzati dalla gestione di Lukascenko, la Bielorussia è rimasta ancorata alle vecchie tradizioni manifestando sempre una sorta di pigrizia intellettuale. In pratica il potere di Minsk ha cavalcato l'onda lunga scaturita all'implosione dell'Urss. Ha accentuato il valore delle tradizioni. ha sottolineato l'importanza della comunità slava e l'unione con la Russia, mettendo in evidenza i "pericoli" esterni. In particolare l'oltranzismo polacco, l'isolazionismo della Lituania, l'aggressività statunitense.
E' così accaduto che gli oppositori di Lukascenko si sono ritrovati a combattere aiutati da alleati che, se da un lato hanno portato dollari ed idee, dall'altro hanno provocato una concreta reazione a livello popolare.
Come conseguenza di tutto ciò il risultato delle elezioni di domenica è stato paurosamente falsato proprio dalla attività e dalla propaganda di precise centrali internazionali. Per paradosso si può dire che i maggiori "aiutanti" di Lukascenko sono stati gli ideologi della Cia, i fanatici di "Solidarnosc", i nazionalisti di Vilnius ed anche gli "arancioni" di Kiev che auspicano una rivoluzione analoga in terra bielorussa.
Sul teatro di Minsk si è combattuta una guerra di tipo particolare. E la dimostrazione si può riscontrare anche nel tipo di reazioni registrate subito dopo il voto. Con i leader del movimento d'opposizione "Zubr" (il "Bisonte") i quali, collegati alle formazioni "Porà" dell'Ucraina, hanno subito parlato di un "voto-truffa", con il dissidente Vladimir Kobets che ha parlato di un potere "che si regge col terrore" e con i media occidentali che continuano ad insistere sul tema di un "Lukascenko ultimo dittatore in Europa". In pratica tutti ancorati alla linea di Bush e della Rice.

E' anche vero, comunque, che su Minsk gravano una serie d'accuse che vengono da numerose organizzazioni intergovernative le quali criticano aspramente la situazione dei diritti umani in Bielorussia. Lo stesso parlamento del Consiglio d'Europa - ricordiamolo - ha espresso "una profonda preoccupazione che la Bielorussia non sia più in grado di soddisfare i requisiti stabiliti dal Consiglio d'Europa per il rispetto di un sistema di democrazia pluralista, lo stato di diritto e i diritti umani". E sempre in questo contesto va rilevato che la Bielorussia è stata posta sotto esame dal Comitato contro la tortura, che ha espresso preoccupazione per "le numerose e continue notizie di torture e altri trattamenti o punizioni crudeli disumani o degradanti, commesse da agenti dello Stato, o con il loro assenso, in particolare nei confronti di oppositori politici del governo e dei manifestanti pacifici, comprese sparizioni, pestaggi e altri atti in contrasto con la Convenzione". Sempre tale Comitato ha raccomandato che "le autorità smettano di evitare di indagare su queste continue violazioni dei diritti umani" e "considerino l'istituzione di una commissione nazionale indipendente, governativa e non governativa sui diritti umani, con poteri effettivi, fra i quali anche quello di promuovere i diritti umani e indagare su tutte le denunce di violazioni contro di essi".

Sono tutte accuse che ricadono su Minsk e sullo stesso Lukascenko. Ma il problema centrale è che ancora oggi il Paese non è riuscito a liberarsi da un passato che pesa. La nuova presidenza repubblicana si troverà ora a fare i conti con questioni che non possono più essere taciute. La Bielorussia dovrà necessariamente fare - politicamente - i conti con le opposizioni interne. Ma dovrà anche difendere la sua forma di Stato bloccando le intrusioni americane, polacche, lituane ed ucraine. Lo scontro è già duro e per ora non si vedono sbocchi di mediazione. Il caso bielorusso è complesso e delicato ed è reso ancor più grave dalla presenza a Minsk della direzione generale della CSI, la confederazione di Stati Indipendenti nata sulle ceneri dell'Urss. Situazione questa che fa ritenere che l'obiettivo della Cia, della Casa Bianca, del Pentagono e di tutte le altre forze che si sono battute contro la leadership di Lukascenko, sia proprio quello di un attacco frontale alla stessa Csi sostenuta dalla Mosca di Putin. E' un'ipotesi, certo; ma potrebbe essere proprio questa ipotesi a portare, indirettamente, Lukascenko sempre più vicino a Putin. Due presidenti uniti in un'alleanza "slava" carica, forse, di progetti comuni a lungo termine. Come dire che il futuro della Bielorussia si decide a Mosca.

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