di Michele Paris

“Ricordo benissimo quel viaggio in Bosnia. Atterrammo sotto il fuoco dei cecchini. Avrebbe dovuto esserci una cerimonia di accoglienza all’aeroporto ma fummo costretti a correre sulla pista tenendo le nostre teste abbassate per raggiungere le auto della scorta che dovevano condurci presso una base militare nelle vicinanze”. Con queste parole la candidata alla nomination democratica, Hillary Rodham Clinton, aveva ricostruito la scorsa settimana le circostanze della sua visita a Tuzla nel marzo del 1996 in qualità di First Lady. Il resoconto di un atterraggio avvenuto in condizioni di estremo pericolo rientrava nella strategia messa in campo dalla Senatrice di New York volta ad accreditarsi l’esperienza necessaria per poter ambire alla Casa Bianca in situazioni di crisi internazionale. Dei rischi che Hillary avrebbe corso in quell’occasione non vi è però traccia nei documenti ufficiali; né, d’altra parte, quanti erano presenti in Bosnia quel giorno di 12 anni fa ricordano alcuna minaccia di fuoco nemico. Smentita anche dalle immagini rimesse in circolazione dai media americani e che mostrano la signora Clinton camminare in tutta tranquillità sulla pista dell’aeroporto di Tuzla per raggiungere una ragazzina che l’attendeva per porgerle il suo saluto, l’ex First Lady ha dovuto ammettere successivamente di aver ricordato erroneamente gli eventi accaduti durante quel viaggio, concedendo tra il serio e il faceto che “occasionalmente, sono un essere umano come chiunque altro”. Tutta la questione si inserisce nel delicato momento che sta attraversando la campagna elettorale per le primarie dei due candidati democratici ed è rivelatrice dell’aggressività ostentata da parte dello staff di Hillary per far apparire il suo avversario, il Senatore dell’Illinois Barack Obama, impreparato ad affrontare le sfide planetarie che attendono il prossimo inquilino della Casa Bianca.

Anche alla luce dei precedenti, legati alle note vicende che hanno coinvolto l’ex Presidente degli Stati Uniti durante i suoi due mandati, non pochi sono però gli osservatori d’oltreoceano a sottolineare il fatto che molti americani siano piuttosto diffidenti circa la sincerità dei Clinton nelle rispettive dichiarazioni pubbliche. E il tema della politica estera è inoltre particolarmente sensibile in quanto scelto come uno dei punti di forza da Hillary per cercare di ribaltare la situazione nella corsa alla nomination che la vede inseguire Obama nel computo dei delegati già assegnati. Gli 80 viaggi compiuti all’estero da First Lady, in gran parte propagandati come di fondamentale importanza nella risoluzione di conflitti di varia natura, come quello compiuto in Bosnia nel 1996, stanno però subendo un parziale ridimensionamento in seguito alla recentissima pubblicazione di oltre 11.000 pagine di resoconti dell’attività di Hillary alla Casa Bianca da parte degli Archivi Nazionali USA.

Se questa imponente mole di materiale spesso non entra nel merito delle questioni trattate durante le visite ufficiali della Senatrice, né rende conto in maniera sistematica dei nomi delle personalità con le quali avrebbe potuto discutere di argomenti legati alle situazioni di crisi internazionale o relativi alla sicurezza nazionale, essa comunque non permette in ogni caso di supportare il suo preteso ruolo da protagonista nella lotta al terrorismo o nella costruzione della pace nei Balcani e in Irlanda del Nord. I responsabili della sua campagna elettorale però si sono affrettati a dichiarare che le carte pubblicate non possono rendere conto a sufficienza dell’indiscutibile punto di vista privilegiato dal quale Hillary Clinton ha potuto osservare e conoscere a fondo le questioni internazionali durante i due mandati del marito. Argomentazioni che il clan Obama ha invece puntualmente attaccato, accusando l’ex First Lady di aver deliberatamente esagerato la propria influenza sulle decisioni prese dalla Casa Bianca.

La smentita più netta del ruolo di primo piano assunto da Hillary nell’elaborazione delle strategie di politica estera è arrivata da Gregory B. Craig, ex membro del Dipartimento di Stato durante la Presidenza Clinton e ora consigliere di Barack Obama, il quale senza mezzi termini ha dichiarato alla stampa che la moglie di Bill in realtà non ha mai presenziato ai meeting nei quali sono state prese le decisioni più critiche da parte dell’amministrazione di cui faceva parte e che i suoi viaggi all’estero sono stati in larga misura di natura cerimoniale. Così, ad esempio, il presunto contributo da lei dato per portare la pace in Irlanda del Nord, secondo una dichiarazione rilasciata alla CNN a inizio marzo nella quale Hillary ricordava di aver presieduto un incontro tra rappresentanze di cattolici e protestanti, si sarebbe risolto nella partecipazione ad un evento di scarsa rilevanza organizzato dal Consolato americano in un locale di Belfast dove le sarebbe stata donata una teiera.

Nessuna evidenza inoltre vi è nei documenti d’archivio di un suo ipotetico incontro nel maggio 1999 con il Presidente e il Primo Ministro della Macedonia per trattare l’apertura della frontiera di quel paese per permettere la fuga degli albanesi in fuga dal Kosovo durante i bombardamenti della NATO sulla Serbia. E ancora, le pressioni fatte da Hillary sul marito per impiegare truppe americane in Ruanda per fermare il genocidio in corso non trovano riscontri ufficiali né sono menzionate nella pur circostanziata biografia dell’ex Segretario di Stato Madeleine Albright, a quell’epoca Ambasciatrice alle Nazioni Unite.

Forzature riguardo al proprio curriculum, colpi bassi e reciproche accuse di falsità tra i due candidati democratici sono ormai all’ordine del giorno da parecchie settimane a questa parte negli Stati Uniti e verosimilmente continueranno a riempire le prime pagine dei giornali almeno fino alla prossima estate. L’esito del testa a testa per la nomination infatti, a meno di clamorosi colpi di scena, resterà con ogni probabilità incerto anche al termine delle primarie per trovare poi una soluzione definitiva solo alla Convention di Denver di fine agsosto con il voto dei cosiddetti Superdelegati del Partito.

L’impronta decisamente bellicosa imposta da Hillary Clinton alla propria campagna elettorale all’indomani delle consultazioni del mese di febbraio, che hanno assegnato un vantaggio probabilmente irreversibile nel bilancio dei delegati a Obama, non sta risparmiando alcun attacco al 46enne Senatore afro-americano, dalle accuse di scarso patriottismo alla strumentalizzazione delle dichiarazioni anti-americane fatte in passato dal pastore della sua Chiesa Jeremiah A. Wright jr., da quelle relative alla sua oratoria, definita come vuota retorica, alla presunta doppiezza delle sue posizioni sul ritiro delle truppe USA in Iraq e della revisione del NAFTA (Trattato di libero scambio tra Stati Uniti, Canada e Messico) nelle apparizioni pubbliche e nelle dichiarazioni in privato.

Una strategia rischiosa quella di Hillary, soprattutto per il Partito Democratico che assiste così inevitabilmente ad un avanzamento nell’indice di gradimento nel paese del Repubblicano John McCain, secondo alcuni sondaggi già in vantaggio su Obama tra gli indipendenti. Con le chances di ottenere la nomination ormai ridotte al lumicino, Hillary Clinton rischia di danneggiare Barack Obama, e il Partito stesso, non tanto in proprio favore ma a tutto vantaggio di McCain in vista dell’election day di novembre. Una condotta deliberata, secondo alcuni, mirata precisamente ad ostacolare in tutti i modi l’elezione del proprio compagno di Partito per conservare un’ultima occasione di correre per la Casa Bianca nel 2012.

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