di Carlo Benedetti

Non c’è solo la Cecenia a tenere in tensione il Cremlino del nuovo arrivato, Medvedev. Perchè ora - a colpi di kalashnikov e granate - irrompe, sulla scena geopolitica e militare della Russia, il Daghestan, una regione del Caucaso settentrionale (la storia la definisce "paese delle montagne") che confina con la Cecenia e dove la rivolta islamica ha già gettato basi notevoli: con diramazioni nei gangli di quel potere locale che si ritrova arroccato nella capitale Makachkala. Ed è proprio qui (in una terra che si chiamava Avaria prima di prendere il nome musulmano di Daghestan) che esplodono i maggiori conflitti interetnici alimentati da guerriglieri che reclamano il distacco dalla Russia proponendo l’indipendenza come soluzione definitiva. Si ripete, pertanto, lo scenario ceceno (accentuato dalle soluzioni previste per il Kosovo dagli Usa, dalla Nato e, in generale, dalle diplomazie occidentali) e non è un caso se nelle valli daghestane vanno a combattere anche uomini che hanno già sconvolto altre aree caucasiche. Per ora parlano le armi. Con l’esercito russo che si sposta rapidamente dalle basi di Grozny per effettuare operazioni mirate contro la guerriglia daghestana. Lo scontro più recente è quello che ha avuto come teatro proprio Makhachkala dove i “ribelli” si sono asserragliati in un'abitazione del centro con l’obiettivo di dimostrare che la guerra non dichiarata ha raggiunto anche la capitale. Equipaggiati di tutto punto - con granate, esplosivi e fucili automatici - si sono rifiutati di consegnare le armi alle forze russe e hanno scatenato un conflitto a fuoco che ha sconvolto per oltre 15 ore l’intera città. Sul campo sono restati i corpi senza vita di due guerriglieri.

Ma le battaglie del Daghestan arrivano anche a Mosca grazie ai servizi televisivi. E lo scenario che si ripresenta è l’altra metà della storia: è lo stesso che ha caratterizzato in questi anni l’attività dei ceceni-antirussi che hanno scelto, più volte, le strade della capitale per dimostrare la loro presenza e la loro volontà. Ora, qui, c’è un giornalista daghestano fatto fuori nella sua stessa abitazione. Si chiamava Ilia Shurpaiev (33 anni) ed era l’inviato del primo canale televisivo per il Caucaso russo. Lo hanno trovato nella camera da letto, con ferite da taglio e una cintura attorno al collo. Secondo i dati preliminari dei patologi, sarebbe morto per strangolamento. E secondo la polizia il delitto avrebbe una precisa matrice daghestana: una vendetta per le cose che Shurpaiev mostrava e commentava in relazione alla sua terra natale.

Un altro giornalista è stato ucciso a Makhachkala. Lo hanno freddato mentre viaggiava sulla sua automobile. Si chiamava Gadji Abachilov, aveva 58 anni e dirigeva l'emittente radiotelevisiva pubblica del Daghestan. Era noto per aver lavorato molto nei teatri più caldi del paese e del Caucaso ex sovietico, dalla Cecenia al Daghestan, dall'Inguscezia alle repubbliche georgiane secessioniste di Ossezia del sud e Abchazia. E, forse, la sua uccisione va letta proprio attraverso questa biografia di inviato al fronte in un periodo di profone e tragiche trasformazioni.

Si apre quindi un nuovo capitolo del “grande gioco” caucasico che va da Grozny a
Makhachkala, da Derbent a Kyzliar per arrivare ai palazzi del Cremlino. E questa volta la posta in gioco è ancora più alta e grave di quella cecena. Il Daghestan, infatti, è di ben tre volte più grande della Cecenia ed ha il doppio degli abitanti. E, soprattutto, ha una solida maggioranza islamica (forte di tradizioni e di “eroi” come il leggendario Shamil) che si è andata sempre più rafforzando a partire dal 1999 grazie a buone iniezioni di denaro da parte dell’Arabia Saudita e di appoggi militari di Al Qaida. Mosca, comunque, ha sottovalutato il rischio Daghestan collegandolo esclusivamente ai “fatti di Grozny” e alle tentazioni espansionistiche dei guerriglieri antirussi. Tanto che sino al 2004 si è parlato di “incidenti daghestani” provocati solo da sconfinamenti di guerriglieri ceceni. Invece è a partire dal 2005 che si può parlare di una vera e propria insurrezione separatista di un Daghestan che diretto da elementi locali sogna la ricostruzione dell’antico regno degli Avari sotto forma di repubblica islamica.

Ora si assiste ad una nuova vampata insurrezionale. E si vanno a “rileggere” in una chiave tutta nuova quei fatti che erano stati relegati negli archivi della “cronaca nera”. Si era invece di fronte ad una vera azione di guerriglia anti-russa che il Cremlino voleva attenuare e tenere anche nascosta. E’ avvenuto così che a partire dall’assassinio del vice-ministro degli Interni Magomed Omarov - avvenuto il 2 febbraio 2005 - si è registrato l’inizio di una serie di attentati che hanno fatto una ventina di vittime fra ufficiali e soldati russi. E ci sono stati e ci sono attacchi violenti anche alle infrastrutture e alle linee ferroviarie. Cominciò così - si dice ora a Mosca - anche l’inferno ceceno con azioni prima segnate da manifestazioni provocatorie e poi, a poco a poco, da eventi bellici di grande portata.

Ed ha ora ragioni da vendere il sociologo e politologo russo Boris Kagarlitsky, quando afferma che “se esplode il Daghestan, la Cecenia al confronto sembrerà una barzelletta”. Soprattutto tenendo conto, in questo contesto di previsioni geopolitiche, che dopo il 1985, in seguito ai violenti conflitti che infiammarono il Caucaso, si registrarono sconvolgimenti epocali. In Transcaucasia gli armeni abbandonarono l’Azerbaigian, gli azeri fuggirono dal Nagorno-Karabakh, i georgiani lasciarono l’Abkhazia e gli osseti i loro villaggi nelle zone interne della Georgia. Sul versante settentrionale, gli ingusci dell’Ossezia del Nord dovettero fuggire dal distretto Prigorodnyj e i russi dalla Cecenia...

Altri spostamenti di popolazioni hanno poi cambiato la configurazione etnica del Caucaso. I russi sono partiti dalla Georgia e dall’Azerbaigian e anche dalle repubbliche russe del Caucaso settentrionale. In alcune di queste, soprattutto nel Daghestan, in Cecenia e in Inguscezia, le comunità russe sono ormai quasi inesistenti. Tanto che si può ritenere che la Cecenia costituisce un perfetto esempio di questo esodo russo: la repubblica ribelle contava ancora nel 1991 più di 250 mila russi; oggi ne restano soltanto alcune migliaia. Nel loro esodo, i russi sono stati seguiti da georgiani, azeri, armeni, ceceni e daghestani. I caucasici, intanto, sono oggi molto numerosi nelle grandi città russe, in particolare a Mosca. In Russia, ad esempio, si calcolano tra un milione e mezzo e tre milioni di azeri.

E mentre si fa il conto di questi problemi il livello generale di guardia si alza anche nei confronti del rapporto che Mosca ha con la Georgia. Una repubblica caucasica dove si annuncia uno scontro duro sulle realtà locali dell’Abchasia e dell’Ossezia del Sud: due repubbliche autonome all’interno della Georgia che ora chiedono l’indipendenza totale ricevendo da Mosca un appoggio ben preciso da parte della Duma. I russi non accettano che la Georgia entri nella Nato portando con se l’intero territorio nazionale dove si trovano, appunto, le realtà abchase e ossetine che, manifestando sentimenti filorussi, si oppongono anche ad una colonizzazione di stampo americano e di dominio Nato.

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