di Bianca Cerri

Spiagge assolate e mari di cristallo? Roba d’altri tempi, oggi la meta più trendy è il Tibet, dove i turisti si recano alla ricerca di pace e spiritualità. Arrampicarsi fino alle cime più alte guidate da uno sherpa pare permetta all’animo di conoscere la beatitudine assoluta. D’altra parte, gli occidentali sono convinti che il Tibet sia una specie di paradiso perduto incontaminato, dove gli abitanti conducono un’esistenza spartana ma armoniosa e non c’è bisogno di leggi per far rispettare l’ordine pubblico, basta il karma. Merito del buddismo, che ha sempre condannato sia la violenza che il materialismo. Insomma, il Tibet sarebbe la Shangri-la dei tempi moderni. Peccato che la storia racconti una verità assai diversa. Fino al 1959 infatti, quando il Dalai Lama andò in esilio, le leggi e l’economia tibetana erano nelle mani dell’oligarchia religiosa e delle autorità militari, tutti gli altri dovevano mettersi al loro servizio. La classe media era composta da non più di diecimila persone, quasi tutti commercianti. Altri 800.000 - su una popolazione totale di 1.250.000 - per la maggior parte erano vincolati alla terra e ricevevano una piccola parcella fondiaria che permetteva loro di sopravvivere ma non potevano spostarsi da un luogo all’altro senza il permesso delle autorità militari. Qualsiasi attività intraprendessero a parte il lavoro, sposarsi, avere figli, organizzare feste, ecc. richiedeva il pagamento di una tassa. Anche i mendicanti erano soggetti a tassazione. Chi non aveva denaro per pagare le tasse ne chiedeva in prestito ai monasteri che pretendevano però un interesse del 50%.

Nel 1951, quando arrivarono i cinesi, l’aspettativa di vita di un tibetano non superava i 35 anni di età, non esistevano né ospedali né acquedotti e i bambini non avevano diritto all’istruzione. Anna Strong, giornalista americana e buona conoscitrice del Tibet, aveva avuto modo di osservare durante i suoi soggiorni che la conoscenza era da sempre una prerogativa dei monaci, che la consideravano un fine per aumentare la loro influenza e ricchezza. Furono i cinesi a rompere il monopolio dei monasteri estendendo l’educazione a tutto il popolo tibetano oltre che a costruire ospedali ed acquedotti.

Perso il monopolio della conoscenza, le autorità religiose temevano che le politiche ugualitarie di Mao Tse Tung avrebbero prima o poi compromesso anche tutti gli altri privilegi di cui avevano sempre goduto prima dell’arrivo dei cinesi. Per tentare di bloccare la loro avanzata, il Dalai Lama accettò l’aiuto della CIA e prima di fuggire diede il suo appoggio incondizionato al programma di addestramento di gruppi di guerriglieri che avrebbero avuto il compito di rendere la vita difficile ai maoisti. Pare che al dipartimento della Difesa americana non siano rimasti molto soddisfatti dei risultati, ma abbiano deciso di concedere ugualmente un vitalizio di due milioni di dollari l’anno ai tibetani in esilio.

Con il trascorrere degli anni, il rapporto tra il Dalai Lama e Washington si è intensificato. George W. Bush non ha mai fatto mancare il suo aiuto agli esiliati. I monaci fuggiti dal Tibet che hanno chiesto asilo politico in California ricevono un vitalizio di 700 dollari al mese dal governo americano, hanno diritto a cure mediche gratuite e ad un appartamento arredato di tutto punto. Non pagano luce e telefono, hanno libero accesso alla rete e possono protestare contro il consumismo senza paura di incorrere in sanzioni. I molti occidentali che in questi giorni si dicono indignati per la repressione in atto in Tibet dovrebbero però ricordare che esiste pur sempre un popolo tibetano che non ha nulla a che fare con la classe religiosa e non si sente rappresentato dal Dalai Lama.

Un popolo composto soprattutto da lavoratori privi di tutela, da persone che oggi si trovano a combattere con malattie respiratorie dovute all’inquinamento, disoccupati che non riescono a trovare una nuova occupazione, ecc. Una situazione, ahinoi, assai preoccupante per un paese che i media continuano a descrivere come unico depositario della trascendenza spirituale. A tutto ciò bisogna aggiungere la minaccia di una privatizzazione della sanità che toglierebbe agli indigenti, compresi quelli di etnia cinese, l’accesso ai farmaci e alle terapie.
Ultimo ma non da ultimo, le lotte fra diverse fazioni buddiste rischiano di trasformarsi in guerra civile. La Cina ha sicuramente fatto molti errori e oggi non rappresenta più quel paradiso ugualitario in cui molti speravano, ma chi vuole veramente sostenere il Tibet dovrebbe forse smettere di immaginare la sua realtà come un film. A meno che non voglia fare un ulteriore affronto al popolo tibetano offrendogli come unica alternativa la scelta tra libero mercato e ritorno al feudalesimo.

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