di Carlo Benedetti

MOSCA. Le forze militariste dell’occidente definiscono l’appuntamento come “la primavera della Nato”. Una “nuova” stagione che dovrebbe iniziare il 2 aprile prossimo quando nella capitale romena, Bucarest, si svolgerà - come annuncia il segretario generale dell’Alleanza, Jaap de Hoop Scheffer - “il più grande summit mai realizzato”. Sarà una prova di forza che vedrà la presenza dei 26 stati membri dell’organizzazione, ma con una partecipazione nettamente superiore a quella dei vertici precedenti. Ci saranno oltre 6.500 invitati e 3.500 giornalisti. Attesi 48 capi di stato e di governo tra cui il presidente americano George W.Bush. Viene avanti, in questo ambito, anche l’ipotesi di una presenza del presidente russo Putin. Che chiuderebbe così il periodo della sua gestione del Cremlino manifestando una certa attenzione agli ambienti atlantici che bussano già alle porte del suo successore. Bucarest quindi attende anche l’ospite russo ben sapendo che le relazioni con Mosca non possono certo dirsi distese. La macchina organizzativa è già in moto e le notizie che giungono dai Balcani - una terra dove la Nato opera in prima linea sia dal punto di vista militare che politico - contribuiscono a fare del summit un vero e proprio consiglio di guerra. Perchè i punti centrali dell’incontro degli stati maggiori di quella che si definisce “Alleanza atlantica” saranno: l’Afghanistan, le spinte separatiste che si registrano nel Caucaso, il ruolo del Kosovo albanese e, ovviamente, le questioni relative all’allargamento dell’organizzazione militare nell’area del mar Nero. Un’attenzione particolare riguarderebbe anche il territorio serbo della Vojvodina, dove matura sempre più il separatismo magiaro.

Al tavolo del vertice si affaccerà poi anche il problema della disputa tra Atene e Skopje sul nome della Macedonia, che rappresenta un ostacolo all'ingresso della stessa Macedonia nell'Alleanza Atlantica. Perchè c’è sempre aperto quel conflitto che dal 1995 oppone Skopje e Atene sul nome ''Macedonia'', non riconosciuto dalla Grecia in quanto è il termine con cui indica le sue regioni del nord. La Grecia, che continua a chiamare il Paese vicino ''Fyrom'' (acronimo di Former Yugoslav Republic Of Macedonia), teme che la Repubblica dell'ex Jugoslavia possa in futuro avanzare delle rivendicazioni territoriali sulle regioni settentrionali del Paese chiamate ''Macedonia orientale, Macedonia occidentale e Macedonia centrale''. La controversia è attualmente nelle mani di un mediatore Onu, Matthew Nimetz, che sta cercando di trovare un compromesso. L'ipotesi su cui si sta lavorando è di usare un nome diverso per la Macedonia nelle relazioni con la Grecia.

Ma su tutte le questioni in cantiere nella capitale romena domina l’obiettivo finale: lo sbarco nella Russia del nuovo presidente. Ecco, quindi, che Bucarest assume un ruolo decisivo, vero ponte atlantico verso l’Est perchè - dopo Praga del 2002 e Riga del 2006 - si appresta a divenire la terza città di un paese dell’ex blocco del Patto di Varsavia che ospiterà un vertice di quella organizzazione che venne costituita con lo scopo di attaccare l’allora Urss e i paesi del blocco socialista fissando i cardini della geopolitica antisovietica.

Ora, secondo le previsioni, il vertice dei 26 stati-Nato dovrebbe registrare una partecipazione nettamente superiore a quegli appuntamenti del passato sempre avvenuti - guarda caso - in aree che erano state di diretta influenza dell’organizzazione militare del Patto di Varsavia. A Bush, ospite d’onore, la Romania mostrerà tutta la sua fedeltà manifestando una disponibilità indiscussa in ambito militare e in un territorio che, per la sua posizione geo-strategica, ha visto crescere negli ultimi anni l’interesse del Pentagono.

Sempre al vertice di Bucarest gli Usa sarebbero intenzionati a chiedere un cambio di strategia della missione Nato. In tal senso ambienti dell’Alleanza hanno già fatto trapelare alcune voci relative ad un piano strategico da attuare in Afghanistan teso a favorire nel paese una vera e propria insurrezione capace di far affermare il potere delle truppe di occupazione su tutto il territorio nazionale. E di conseguenza sembra già che sia stato chiesto un impegno in merito a Italia, Spagna, Germania e Francia.

Un'altra voce nell’agenda politica della Nato riguarda l’ulteriore avvicinamento all’Alleanza dei paesi dell’area balcanica come la Serbia, la Bosnia Erzegovina e il Montenegro. E questa linea relativa alle annessioni viene fortemente appoggiata dalla Romania che ritiene indispensabile l'allargamento dell’influenza della Nato verso Croazia, Macedonia, Albania, Ucraina e Georgia. Pur se in quest’ultimo paese i recenti avvenimenti interni nonché i conflitti congelati in Adzaria e nelle enclave russe - Ossezia e Abkhazia - complicano il quadro. Tutto questo mentre già da Kiev arrivano voci su una eventuale adesione all’Alleanza proprio in occasione del vertice di aprile.

Intanto gli Usa non mollano e aprono nuove basi in Bulgaria dove già la bandiera a stelle e strisce sventola su quattro grandi aree. Tutto avviene perchè il governo di Sofia ha accettato il diktat della Casa Bianca relativo ad una serie di undici “accordi” che, da oggi, vincoleranno il paese alle linee militari del Pentagono. Nelle zone individuate dai tecnici americani sorgeranno così quattro basi che dovranno diventare operative - lo annuncia l'ambasciatore Usa a Sofia, John Bayrle - a partire dall'autunno prossimo. E questo vuol dire che i lavori sono già in corso a Novo Selo dove si costruisce un centro di addestramento nel quale gli istruttori americani si occuperanno della preparazione dell’esercito bulgaro.

Intensa è anche l’attività in due altre basi - a Bezmer e Graf Ignatievo vicino alla città di Plovdiv - che verranno destinate all’aviazione da guerra e a poligoni di tiro. Infine si lavora a ritmi serrati anche ad Aitos dove si stanno realizzando i bunker per le armi che gli americani trasferiranno in Bulgaria. In totale i militari impegnati nell’occupazione di queste nuove basi saranno circa 15.000. Molti giungeranno direttamente dagli Usa ed altri verranno spostati dalle basi che si trovano in Germania.

Il piano è stato studiato nei dettagli dal generale Gousse Harget, della guardia nazionale del Tennessee, che ha già compiuto un raid nelle zone interessate. Ha fatto visita al centro di comando delle forze operative statunitensi di Plovdiv, della regione di Bourgas (sul Mar Nero), si è recato in ispezione al comando "Iztok" di Sliven e al poligono di Novo Selo. L’obiettivo della nuova strategia americana consiste nella creazione di una "intelaiatura" di basi per le future operazioni supportate da ridotte forze militari nell'Europa del Sud Est, nel Medio Oriente, in Africa e in Asia, al posto delle tradizionali basi americane in Germania, Turchia, Arabia Saudita e altri luoghi nel mondo. Tutto questo piano viene propagandato come parte di una azione tesa a combattere il terrorismo. In realtà il programma riguarda spostamenti di forze USA dall'Ovest all'Est Europa, per utilizzare al massimo, in tutta la regione, i poligoni e le basi aeree. Il Pentagono - a quanto risulta - userà ora la Bulgaria e la Romania per i poligoni come basi per il periodo di un anno con oltre 3.000 militari, pronti per un immediato impiego.

Secondo Yanush Bogaisky, del think tank "Brucklins", il motivo dell'ingresso della Bulgaria, Romania e Polonia nella nuova strategia degli USA non è dovuto solo alla loro fedeltà politica durante le guerre in Afghanistan e in Iraq e grazie alla loro vicinanza al Mar Nero, ma dal fatto che alcuni sentimenti anti-americani stanno crescendo in paesi come la Germania e la Turchia. Presso la base militare turca di Incirlik, per esempio, il contingente USA è stato ridotto da 3.000 membri a 500 proprio per non dare adito ad ulteriori proteste.

Quanto alla Bulgaria questo paese si comporta già come un fedele servitore: sia durante le operazioni militari in Kosovo sia durante la guerra in Afghanistan il governo di Sofia ha sempre garantito il proprio appoggio alle forze atlantiche. E i primi, importanti contatti tra Sofia e l’Alleanza atlantica si sono registrati, infatti, all’epoca della guerra in Kosovo, quando il governo bulgaro diede il proprio consenso al sorvolo del territorio nazionale da parte dei caccia Nato. Ma la vera svolta verso l’instaurazione di un «rapporto speciale» tra le parti si è registrata quando a Bruxelles è stato siglato un memorandum d’intesa per l’attraversamento e lo stazionamento degli eserciti dei Paesi membri della Nato in terra bulgara.

La strategia generale degli atlantici dopo il crollo del Patto di Varsavia e la disgregazione dell’Urss resta quella fondata sui rapporti euroamericani visti alla luce della leadership transatlantica di Washington e sul doppio pilastro della Nato, quello europeo e quello americano. Eppure l’ideologia che domina ora nei vertici politici dell’Alleanza non consiste più nel dissuadere un’aggressione ben definibile su una linea di difesa avanzata, ma di intervenire al di fuori dei territori nazionali europei per il mantenimento o il ripristino della pace, della stabilità e dell’ordine internazionale, sia a Est che a Sud. In conseguenza di tutto questo - è la tesi dominante - gli “interventi” sono divenuti degli optional, soggetti al determinante condizionamento degli interessi nazionali di ciascuno Stato e del consenso dell’opinione pubblica; quindi della politica interna di ciascun paese.

Non sono più possibili risposte preconfezionate. Occorre procedere con decisioni contingenti, che vengono assunte da ciascun governo sulla base di una valutazione comparativa fra i costi di un intervento o quelli, pure reali, di un non intervento. Ma è chiaro che agli Usa questo tipo di approccio non va bene. Ed è per questo che anche all’appuntamento di Bucarest si cercherà di invertire la tendenza e di dare nuovi sbocchi alla posizione americana. Che è quella del dominio assoluto dell’Alleanza militare. Dove gli alleati sono, praticamente, dei sudditi, obbligati al totale rispetto delle regole fissate dal vertice.

Ma nello stesso tempo il Pentagono e gli uomini in divisa che siedono a Bruxelles sono sempre più obbligati a considerare che gli interessi nazionali non rappresentano «polvere del passato». Sono una premessa per la definizione di quelli collettivi perchè, nonostante le pressioni, ogni paese, prima o poi, si troverà a valutare gli eventi sulla base del proprio interesse nazionale. La questione - proprio alla vigilia dell’appuntamento di Bucarest - resta aperta, tanto da causare tra i paesi invitati al summit un senso di disagio e di far dire a molti osservatori diplomatici che la strada è ancora in salita.

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