di Cinzia Frassi

Dal caso Parmalat ai rifiuti campani, la class action fa parlare di se ancor prima di essere realtà. In estremis, alla vigilia del Natale scorso, tra i meandri della Legge Finanziaria, dove ha trovato una frettolosa quanto lacunosa formulazione, la tanto acclamata azione risarcitoria collettiva è stata più che altro il cavallo di battaglia di molti ed un’occasione per gonfiare il petto per altri. Perchè non ha molto a che fare con quella class action che richiama alla mente il rimedio collettivo americano. Alla fine di febbraio, a conclusione del convegno intitolato “L’azione collettiva a tutela dei consumatori: opportunità e prospettive”, organizzato a Roma dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU) il ministro Pier Luigi Bersani, a conclusione dei lavori, si dimostra soddisfatto: in sostanza afferma che l’Italia ha fatto non solo un passo avanti rispetto al resto dell'Europa in tema di difesa dei consumatori ma anche un grande salto di qualità. La legge è da molti considerata una “legge di straordinaria portata innovativa”. L'azione collettiva risarcitoria è arrivata con l’entusiasmo e le speranze suscitate da uno strumento processuale a tutela di cittadini consumatori ed utenti sollecitati anche dalle recenti vicende finanziarie, accompagnato da un certo allarmismo da parte del mondo delle imprese che sembra la associno ad una non meglio precisata minaccia. Tuttavia, i punti critici sono tanti e vanificano la possibilità di avere nell’ordinamento giuridico italiano un rimedio efficace.

Per sommi capi, si tratta di un’azione a tutela di interessi collettivi esperibile da associazioni di consumatori rappresentative a livello nazionale ed iscritte in un apposito elenco presso il Ministero dello sviluppo economico, o da qualsiasi altra associazione o comitato, quando si ritengano lesi i diritti di una pluralità di consumatori o utenti. L’azione ha la finalità principale di accertare l’illecito plurioffensivo e il conseguente diritto al risarcimento del danno.

Dovrebbe essere un rimedio prezioso soprattutto nel settore dei servizi, dal settore finanziario a quello delle telecomunicazioni. Un elemento introdotto per limitare quelle che potrebbero configurarsi come azioni pretestuose a danno delle aziende è il filtro dell’ammissibilità della domanda, sulla quale si pronuncia alla prima udienza il Tribunale: quando sia palesemente infondata, in conflitto di interessi; oppure quando non sussista l’esistenza di un interesse collettivo tutelabile mediante l’azione collettiva. Ma non corriamo troppo, per carità: il Tribunale può trovarsi ad attendere quando sia in corso un'istruttoria di un’autorità indipendente come l’Autorità garante per la concorrenza ed il mercato, l’Autorità per l’energia, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni o il Garante della privacy, il cui esito sarebbe naturalmente ricorribile al Tar e successivamente al Consiglio di Stato.

In seguito, in caso di rigetto della domanda da parte del Tribunale, resta la possibilità dell’appello e talora della Cassazione. In caso di accoglimento tuttavia c’è una prima sorpresa che caratterizza la class action all’italiana: “l’adeguata pubblicità” dell’accoglimento alla generalità dei consumatori è compito imprescindibile del proponente ed a suo carico, senza possibilità di rifusione in caso di successo della domanda. Si comprende come il problema dell’onerosità vanifichi in partenza l’accesso al rimedio collettivo.

Non finisce qui, c’è dell’altro. Una volta notificata la sentenza, l’impresa convenuta ha 60 giorni di tempo per formulare la propria proposta di pagamento oppure, così come se i “consumatori” non la accettano, si apre una fase di conciliazione per la determinazione del quantum. Vale a dire che con i tempi normali della giustizia italiana in cui sono necessari lustri per arrivare ad una sentenza, ci si deve mettere comodi ed aspettare ancora. Nel mentre, onorari e spese lievitano inevitabilmente, sempre a danno dei cittadini consumatori.

L'avvocato Massimiliano Dona, Segretario generale dell'Unione Nazionale Consumatori, intervenendo al convegno citato sostiene che "così com'è la class action non è in grado di rispondere all'esigenza per la quale è stata pensata: dare soluzioni alla lesione collettiva dei diritti dei consumatori", aggiungendo che “i consumatori non risparmieranno tempo né energie ma dovranno affrontare il solito percorso tortuoso che ciascuno incontra quando si rivolge al Giudice. A ciò si aggiunga che le associazioni non hanno i mezzi per dare vita ad iniziative collettive. Come faranno fronte ad una mobilitazione di migliaia di casi?”

Se non bastassero queste constatazioni, va detto qualcosa a proposito dei “punitive damages”, punto forte della class action americana. Il risarcimento del danno ha una finalità riparatoria, restituisce quanto tolto, ma accanto a questa previsione nella legislazione americana si affiancano i danni punitivi. Si tratta di un elemento punitivo, dall’ammontare spesso piuttosto ingente, che carica la class action di quegli elementi che la rendono credibile e temibile dal mondo delle imprese. Non solo, rendono appetibile l’esperibilità dell’azione da parte dei consumatori, che possono confidare in un risarcimento soddisfacente. Inoltre, costituiscono la garanzia che il danneggiante non ripeterà il comportamento lesivo, anzi nell’esperienza americana garantisce l’eliminazione del comportamento che è stata la ragione della sanzione.

Nonostante tutto però la class action all’italiana viene considerata un buon inizio, qualcosa sui cui discutere per migliorare. Quindi, mettiamoci seduti e aspettiamo ancora.

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