di Michele Paris

Tra Stati Uniti e Canada è scoppiata una accesa polemica nelle ultime settimane in seguito al pronunciamento del giudice federale di Ottawa, Michael L. Phelan, circa il presunto mancato adempimento di Washington degli obblighi derivanti dal trattato che regola i diritti dei rifugiati richiedenti asilo politico in uno dei due giganti nordamericani (“Safe Third Country Agreement”). A seguito di una dozzina di dichiarazioni giurate (affidavit) di esperti di diritto ed avvocati americani, raccolte da tre organizzazioni canadesi (Commissione per i Rifugiati del Canada, Commissione delle Chiese del Canada, sezione canadese di Amnesty International), in merito al caso di un cittadino colombiano rispedito al proprio paese natale dagli USA nonostante le minacce subite dalla sua famiglia, il giudice Phelan, dopo aver valutato anche altri casi simili verificatisi negli ultimi anni, ha preso quella che - a detta dei postulanti - resta l’unica decisione possibile: la richiesta di invalidamento dell’accordo tra i due paesi. Stipulato tra Ottawa e Washington nel 2002, il “Safe Third Country Agreement” fa riferimento alle norme internazionali che regolano il trattamento di cittadini stranieri in fuga da persecuzioni di varia natura nei rispettivi paesi di origine. Stabilisce che i rifugiati giunti dagli USA al Canada non possono chiedere asilo politico in quest’ultimo paese per il semplice fatto che avrebbero dovuto chiederlo negli Stati Uniti, in quanto l’accordo in questione garantisce, o dovrebbe garantire, parità di trattamento in entrambi i paesi. L’intesa opera anche a parti invertite ma la gran parte del traffico dei rifugiati è in realtà diretta verso nord. Anche se si è ben lontani da una decisione definitiva in merito a tale controversia, sembra piuttosto verosimile che a migliaia di richiedenti asilo nei prossimi mesi verrà nuovamente data facoltà di sottoporre la loro posizione all’attenzione di un tribunale canadese nonostante un precedente soggiorno negli Stati Uniti.

Il rapporto di 124 pagine del giudice Phelan mette in risalto più di un episodio nel quale la giustizia a stelle e strisce avrebbe adottato provvedimenti contrari agli accordi internazionali sui diritti dei rifugiati politici. Tale situazione, già evidenziata peraltro anche da una corte britannica nel 2000, è diventata ancora più delicata in seguito ai fatti dell’11 settembre e all’introduzione del discusso “USA Patriot Act”, la legge approvata nell’ottobre 2001 che ha ampliato considerevolmente i poteri delle forze di polizia e delle agenzie federali per la sicurezza in funzione antiterroristica. In questa direzione va anche, ad esempio, la norma che escluderebbe da ogni possibilità di richiesta di asilo qualsiasi persona che fornisse supporto materiale di qualunque genere ad organizzazioni ritenute terroristiche, anche se costretta, compreso l’eventuale pagamento di un riscatto in caso di rapimento di un familiare.

La vicenda del cittadino colombiano che ha dato inizio all’azione legale, e la cui identità è stata tenuta sotto segreto per motivi di sicurezza, ha suscitato molte polemiche dopo che Washington aveva rifiutato la sua richiesta di asilo perché presentata una volta trascorso un anno dal suo arrivo sul suolo americano, nonostante fosse ampiamente provato il grave rischio al quale sarebbe stata sottoposta la sua famiglia, e lui stesso, se rimpatriati in Colombia. Un altro caso citato nella relazione del giudice Phelan è poi quello riguardante il cittadino canadese-siriano Maher Arar, un ingegnere oggi 37enne estradato nel 2002 in Siria, suo paese natale, dove fu sottoposto a torture per quasi un anno. Quest’ultimo, di ritorno verso il Canada (dove risiedeva e risiede tuttora) da una vacanza con la famiglia in Tunisia, venne fermato dalla polizia statunitense durante uno scalo all’aeroporto Kennedy di New York perché sospettato di essere affiliato ad Al Qaeda. Messo in isolamento ed interrogato per due settimane senza possibilità di contattare un avvocato, Arar venne alla fine spedito in Siria prima di poter fare ritorno in Canada ed essere completamente scagionato dal governo di quel paese, nonché rimborsato con una somma superiore ai 10 milioni di dollari per l’ingiustizia subita.

Anche se il caso sollevato dalla giustizia canadese non fa che prendere atto, secondo alcuni, di una situazione che vede moltiplicarsi in USA i casi di violazione dei diritti umani dei rifugiati, dei detenuti e dei sospettati in genere, basti citare, sia pure in un contesto diverso, i macroscopici fatti di Guantanamo o Abu Ghraib, in molti a nord dei Grandi Laghi hanno criticato l’azione legale promossa contro Washington, nonché le conclusioni del giudice Phelan. Reazione questa che non ha sorpreso Janet Dench, presidente della Commissione per i Rifugiati del Canada, la quale senza nascondere una certa delusione, si è detta consapevole del timore diffuso da più parti nel proprio paese di denunciare il potente vicino su un tema così delicato. Il governo federale canadese infatti per ora ha rifiutato di prendere in considerazione l’ipotesi di rivedere lo status degli Stati Uniti come paese sicuro per i rifugiati in base al trattato in questione.

Ben poca è stata infine l’attenzione prestata all’intera vicenda dalle parti in causa in America. Nonostante il New York Times abbia ammesso che nella decisione della corte federale canadese ci siano fondate ragioni per criticare le pratiche statunitensi, la replica ufficiale dell’ambasciatore USA in Canada David H. Wilkins, acceso sostenitore dell’amministrazione Bush e potenziale candidato numero uno alla poltrona di governatore della nativa Carolina del Sud nella prossima tornata elettorale, ha assunto i toni di un proclama retorico e non ha lasciato spazio ad autocritiche o ripensamenti. “Il nostro paese ha una orgogliosa tradizione di accoglienza e sostegno verso i rifugiati, dei quali abbiamo sempre difeso i diritti rispettando gli obblighi dei trattai internazionali”, ha dichiarato in una nota letta alla stampa dal suo portavoce. “In base a questi principi, gli Stati Uniti accolgono il maggio numero di rifugiati rispetto a qualsiasi altro paese nel mondo, dimostrando di essere tuttora un baluardo di libertà e speranza”, ha concluso Wilkins nel suo messaggio senza fare alcun riferimento alle singole vicende citate nella deliberazione del giudice canadese.

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