di Daniele John Angrisani

Mentre la campagna elettorale per le presidenziali si trascina stancamente, tra dibattiti su Youtube e comizi in piazza in attesa delle primarie di inizio 2008, che decideranno i candidati dei due schieramenti, nei corridori del potere di Washington tira un'aria piuttosto strana. Gli ultimi mesi non sono stati certo semplici da gestire per l'Amministrazione Bush che, dopo aver perso uno dietro l'altro i suoi nomi di spicco (Rumsfeld, Rove, Ashcroft solo per citarne alcuni) si è trovata perennemente in difensiva soprattutto sulla politica estera. A parte l'Iraq, ormai considerato universalmente come un disastro senza fine da cui bisogna solo cercare di uscire quanto prima cercando di limitare i danni, anche nel resto dei fronti caldi non è che le cose vadano così bene. Nonostante il tentativo, a dire il vero malriuscito, di dare una patina di ottimismo con la Conferenza di Annapolis sul Medio Oriente, che si è conclusa con un sostanziale nulla di fatto (a parte una dichiarazione di principi che non afferma altro che i negoziati riprenderanno per una soluzione definitiva della crisi), l'Amministrazione americana ha ben poco di cui rallegrarsi. Sono ormai lontani i tempi in cui lo stesso Bush affermava, ad esempio, di aver visto "l'anima di sincero democratico" dentro gli occhi del presidente russo Putin. Ora non passa invece giorno senza che i due si scambino accuse reciproche di qualsiasi tipo, tanto da far parlare di una nuova guerra fredda alle porte, nonostante le smentite reciproche. La trionfale vittoria elettorale di Putin, presentatosi apertamente alle urne con un programma elettorale assolutamente antiamericano sotto tutti i punti di vista, non ha certo aiutato a stemperare il clima che rimane anzi sempre più caldo, a causa delle frizioni che continuano ad esistere su temi come lo scudo antimissilistico, il futuro del Kosovo ed il ritiro russo dal Trattato CFE di disarmo in Europa. Inoltre, cosa decisamente più importante ai sensi dell'assetto geostrategico, l'asse russo-cinese dello SCO sembra aver messo a serio rischio i piani americani di controllo dell'Asia centrale, che per ora si fondano solo sulle basi militari presenti in Kirghizistan (paese membro dello SCO a sua volta) e in Afghanistan.

Afghanistan dove peraltro la situazione è quasi del tutto fuori controllo: i talebani hanno riconquistato buona parte del territorio, grazie anche all'afflusso continuo di denaro garantito dal commercio della droga, unica attività economica fiorente in quelle zone, per troppo tempo benevolmente permessa dalle autorità afgane e dai signori della guerra. Ma il segno più lampante delle difficoltà americane è la questione riguardante il presunto programma nucleare iraniano. Dopo essere riuscito a far passare, con difficoltà e mille compromessi, due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell'ONU per applicare sanzioni contro il regime iraniano, da pochi giorni la strategia americana sull'Iran sembra essere stata affondata direttamente dall'interno. Un documento ufficiale delle agenzie di intelligence americane, il cosiddetto "National Estimate Intelligence" (NIE), pubblicato poco meno di una settimana fa, ha infatti affermato che l'Iran avrebbe fermato il suo programma nucleare militare dal 2003, smontando così di fatto la principale accusa mossa dagli americani contro Ahmadinejad, che infatti subito ha cantato vittoria. Dal canto suo il presidente Bush ha cercato di attutire il colpo affermando che questa è la prova che la strategia americana sta avendo successo e che bisogna continuare su questa strada, ma le sue parole sono risultate credibili a ben pochi.

A breve la questione dovrà tornare al Consiglio di Sicurezza dove è prevista, già da ora, una forte resistenza da parte russa e cinese ad ulteriori sanzioni nei confronti dell'Iran (paese in attesa di entrare a far parte dello SCO, tra le altre cose). Una posizione in assoluto contrasto con quella americana e dei Paesi europei che hanno proprio in questi giorni approvato una mozione a sostegno di ulteriori sanzioni contro l'Iraq, basata a questo punto non si sa su cosa. Ma Stati Uniti ed Europa hanno in comune anche un'altra posizione, che rischia di far riconflagrare i Balcani: l'appoggio, più o meno implicito, alla richiesta di indipendenza del Kosovo, di fatto un protettorato NATO dalla fine della guerra nel 1999 ad oggi. I negoziati per la ricerca di una soluzione condivisa tra serbi e kosovari sono falliti miseramente nelle scorse settimane, ed il nuovo governo kosovaro, guidato da colui che viene considerato da Belgrado (e non solo) come l'ex terrorista dell'UCK Hashim Thaci, ha già annunciato che all'inizio del 2008 dichiarerà unilateralmente l'indipendenza, contando appunto sull'appoggio di buona parte dei governi occidentali.

Da parte sua il governo serbo, con l'appoggio di Mosca, ha già preannunciato una dura risposta diplomatica nei confronti di chiunque riconoscerà l'indipendenza del Kosovo, ed uno degli esponenti del team serbo ai negoziati, Aleksandar Simic, ha addirittura preannunciato il possibile ricorso all'uso della forza in caso di "violazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU" che garantiscono l'integrità territoriale della Serbia. La situazione è talmente delicata che lo stesso segretario generale della NATO, De Hoop Scheffer, ha dichiarato che il contigente militare dell'Alleanza Atlantica rimarrà in zona, pronto per qualsiasi evenienza. Qualsiasi cosa succeda, comunque, è indubbio che l'indipendenza del Kosovo rischia di accendere un ulteriore focolaio di tensione, stavolta nel cuore dell'Europa, a distanza di meno di 10 anni dall'ultimo spargimento di sangue nel Vecchio Continente. E, incidentalmente, richiederà molto probabilmente anche l'uso di ulteriori truppe americane, nonostante il Pentagono e gli alti gradi militari già si lamentino del sovrautilizzo delle suddette truppe in Iraq ed Afghanistan e, da tempo, affermino che l’esercito USA rischia di arrivare al limite di sopportabilità se continua su questa strada.

L'unica, forse, buona notizia per Washington è provenuta dal posto da cui meno ce lo si attendeva: il Venezuela, dove il progetto di riforma costituzionale di Chavez è stato sconfitto alle urne per un soffio. Una vittoria insperata per l'opposizione, data per moribonda sino a pochi giorni prima, che ha fatto andare su tutte le furie il presidente venezuelano. Paradossalmente, però, parte del merito è da attribuire proprio al fatto che l'attenzione americana (almeno ufficialmente) è al momento puntata altrove. Sembra proprio infatti che, in Venezuela come altrove, per vincere bisogna dimostrare di essere meno filo-americani possibile. Chissà che, anche questo, non sia di lezione per coloro che dal prossimo anno dovranno ridisegnare una strategia di politica estera per cercare di dimenticare i disastri di questi anni e ridare un minimo di credibilità all'immagine americana nel mondo.
Un obiettivo, c'è da dire, ben lontano dalle capacità di buona parte dei candidati alle primarie. Ma, considerato che l'attuale presidente Bush aveva fatto campagna elettorale nel 2000 sotto il segno dell'"umiltà" in politica estera ed ora è sotto gli occhi di tutti come si è comportato, tutto è ancora possibile sotto il cielo di Washington.

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