di Eugenio Roscini Vitali

Che in Marocco il ruolo della democrazia continui ad essere condizionato dalla presenza della monarchia è confermato dal risultato elettorale espresso nelle ultime elezioni legislative (le precedenti si sono tenute nel 1997 e nel 2002). Il mancato successo degli islamici moderati, puniti probabilmente dal forte astensionismo, dimostra come il peso istituzionale del Re Mohammed VI continui ad influenzare in modo determinante nelle decisioni di un elettorato (più di 15 milioni) disilluso e frustrato, pienamente cosciente della condizione di subordine e dipendenza che la politica marocchina soffre nei riguardi di sistema chiuso ad ogni cambiamento. Quasi inaspettatamente, a vincere le elezioni sono stati i conservatori del Partito dell'Indipendenza (Istiqlal) che hanno ottenuto 52 dei 325 seggi del Majlis al-Nuwab, la camera bassa di Rabat; gli islamici moderati di Giustizia e Sviluppo (Pjd) hanno ottenuto 47 seggi, la formazione di destra del Movimento Popolare (Mp) 41, i centristi del Raggruppamento Nazionale degli Indipendentisti (Rni) 39 e i socialisti dell'Unione delle Forze Popolari (Ufsp), ex partito di governo ed alleati dell'Istiqlal, hanno ottenuti 38 seggi. A caratterizzare le legislative del 7 settembre scorso, le seconde registrate da quando è salito al trono Mohammed VI (1999), è stato l’altissimo tasso di astensione che ha raggiunto il 63%, un record per il Marocco e la dimostrazione pratica del distacco espresso dalla popolo verso il mondo politico e nei confronti di questo sistema elettorale, così complesso da non garantire a nessun partito la possibilità di ottenere la maggioranza assoluta.

Un sistema elettorale viziato da regole che garantiscono al monarca, già Capo dello Stato, comandante delle Forze Armate e massimo leader religioso, il controllo assoluto del Paese. Al termine degli scrutini non sono mancate le denunce di brogli: i rappresentanti del Pjd, che puntavano ad ottenere almeno 70 seggi, sostengono che dietro la vittoria degli avversari c’è la mano della corruzione, del denaro girati a fiumi ed utilizzato per comprare i voti. Accuse che non servono a cambiare lo stato dei fatti e che non troveranno mai alcun riscontro, finendo, con il passare del tempo, per dissolversi nel nulla.

Nel considerare il risultato elettorale è necessario considerate anche un fatto estremamente importante per gli equilibri politici marocchini. Alcuni giorni prima dell’apertura dei seggi elettorali il “Millennium Challenge Corporation” (MCC), l’organizzazione governativa statunitense nata per guidare ed aiutare i Paesi più poveri nello sviluppo economico e per incentivare la crescita del libero commercio, aveva sottoscritto con il Marocco un accordo da 700 milioni di dollari, un premio a sostegno del processo di democratizzazione intrapreso con il sostegno della monarchia. Questo è il sussidio più cospicuo che l’MCC abbia mai elargito dal giorno della sua nascita, voluta dal presidente americano George W. Bush nel 2004, e rappresenta l’ennesimo tentativo di trasformare il Marocco in un prodigioso cocktail di Islam e democrazia, un esempio per il resto dei Paesi maghrebini e per molti governi mediorientali; il riconoscimento dei passi fatti in materia di libertà di stampa, di sostegno alle organizzazioni non governative, di lotta al terrorismo, di garanzie verso le minoranze religiose e verso i diritti della donna.

Spinte probabilmente delle imminenti elezioni legislative, negli ultimi mesi le autorità marocchine hanno promosso numerose iniziative. Alcuni esempi: nel febbraio scorso il governo marocchino ha approvata la legge che permette alle madri di trasmettere ai figli la propria nazionalità, un diritto finora riservato ai padri; per combattere la crescita del terrorismo all’interno delle moschee, ha pianificato la ristrutturazione degli oltre 41 mila luoghi di culto islamici, ha rivisto il programma di formazione e il compenso degli imam e ha incentivato la figura delle morchidates, le predicatrici autorizzate a spiegare il Corano che da molti sono state definite la locomotiva del cambiamento; in aprile, il ministero degli Affari islamici ha promosso corsi di alfabetizzazione, diffusi nelle moschee con programmi televisivi a circuito chiuso; in settembre le associazioni religiose hanno inaugurato un programma di scambi per promuovere l’eredità culturale marocchina nella sua dimensione Berbera, Ebraica, Africana ed Araba.

La strada imboccata dal Marocco non è comunque priva di ostacoli e ogni medaglia ha il suo rovescio. Il ruolo della democrazia è ancora fortemente limitato dalle normative decretate da chi ha in mano il potere, come nel caso delle regole che stabiliscono le libertà di stampa, meno restrittive che in altri Paesi africani e mediorientali ma non ancora scevre dall’influenza dei settori forti dello Stato. L’affare Nichane, il settimanale accusato di offesa alla religione per aver pubblicato alcune barzellette sui temi di sesso, politica e culto, è un esempio evidente di come il regime censorio delle autorità possa limitare l’autonomia delle fonti di informazione ritenute più scomode.

Il direttore e il redattore della rivista sono stati condannati a tre anni con la condizionale mentre la pubblicazione del giornale è stata sospesa del 60 giorni. Quello di Nichane non è stato l’unico caso; condanne più pesanti hanno colpito quotidiani e settimanali francofoni e in lingua araba, a conferma che molto rimane da fare prima di poter parlare di vera libertà di stampa.

Non appena salito al trono, il Re Mohammed VI ha dato vita ad una serie di riforme con le quali ha cercato di avvicinare il Marocco alla democrazia: ha permesso il ritorno nel Paese dei dissidenti e ha licenziato Driss Basri, ex ministro dell’Interno e maggior responsabile dell’ondata di repressione politica sotto il regno di Re Hassan. Il governo, uscito vincente dalle consultazioni elettorali del 2002 giudicate dagli osservatori elezioni imparziali, libere e democratiche, avrebbero dovuto continuare sulla strada dei cambiamenti ma la complessità del sistema elettorale ha incatenato il processo riformista.

Non prendendo in considerazione il risultato espresso dagli elettori, Mohammed VI ha nominato primo ministro un personaggio estraneo alla scena politica, Driss Jettou. Le leggi approvate nel dicembre 2005 e nella prima parte del 2007 hanno portato la soglia di sbarramento dal tre al sei per cento, rinforzando di fatto i partiti maggiori ma tralasciando il problema più spinoso, la forza rappresentanza e decisionale della camera bassa.

Come previsto dall’articolo 24 della Costituzione, il 19 settembre Mohammed VI ha nominato il primo ministro. La scelta è caduta su Abbas El Fassi, capo di Istiqlal che nel il precedente governo aveva ricoperto l’incarico di ministro senza portafoglio. Al neo primo ministro spetta ora il compito di formare un governo di coalizione al quale aderirà sicuramente l’Usfp. Ma potrebbero esserci delle novità; il 13 settembre, a Casablanca, il sovrano ha infatti tenuto una serie di incontri separati con i rappresentanti dei sei partiti che hanno ottenuto il maggior numero di seggi. Tra loro Saadeddine El Othmani, leader del Pjd, che non ha nascosto la possibilità che gli islamici moderati possano, se invitati, entrare a far parte della compagine governativa.

Un’apertura importante perché l’adesione dei rappresentanti di Giustizia e Sviluppo all’esecutivi guidato da Abbas El Fassi darebbe vita ad un governo ad ampio spettro che potrebbe rappresentare le istanze di gran parte della popolazione e guidare un cambiamento che ridia fiducia a quel 63% di elettori che non si riconosce nella politica marocchina. Dalle legislative 2007 potrebbero quindi nascere nuove alleanze che, comunque, continuerebbero a muoversi all’ombra di una monarchia padrona assoluta del sistema istituzionale del Paese.

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