di Giuseppe Zaccagni

Sul Kosovo i serbi alzano il tono dello scontro ed attaccano direttamente l’Onu e i governi dell’Occidente che si stanno prestando ad avvalorare le prossime elezioni locali previste per il 17 novembre nella contesa regione. E mentre la crisi politico-diplomatica si accentua Belgrado invita la minoranza serba - che vive nel Kosovo - a boicottare la consultazione. C’è, al riguardo, un documento ufficiale nel quale si sottolinea che, a otto anni dai bombardamenti Nato del 1999 e dall'imposizione di una tutela internazionale sulla provincia, continuano a non essere rispettati molti ''diritti elementari'' delle minoranze non albanesi. Senza considerare il fatto - osserva Belgrado - che i ''due terzi'' della comunità serbo kosovara sono stati costretti negli ultimi anni a lasciare la provincia e restano tutt'ora impossibilitati a rientrare. I dati in merito sono impressionanti e poche sono quelle forze che in occidente si diffondono su questo aspetto umanitario. Per questo a Belgrado c’è chi si chiede dove siano finiti tutti quelli che piangevano sull’esodo dei kosovari nel momento in cui gli aerei della Nato colpivano quei villaggi del Kosovo che subivano già le repressioni criminali degli uomini dell’Uck. La denuncia di Belgrado riguarda ora il fatto che nel corso di questi ultimi otto anni di “presenza” dell’Onu in Kosovo non sono state risolte le condizioni più elementari per permettere una vita sicura ai serbi e alle altre popolazioni non albanesi. Ed è particolarmente umiliante - insistono i serbi - che due terzi della popolazione serba del Kosovo viva ancora fuori dei confini regionali. Le accuse contro l’occidente si fanno quindi sempre più forti e pressanti. Con la stampa che ricorda che l’occidente si è sempre caratterizzato stringendo alleanze sbagliate. L’ha fatto nei Balcani - dicono a Belgrado – con l’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck) e lo sta facendo in Iraq, illudendosi che esista una linea di demarcazione tra il bene e il male. La situazione va sempre più aggravandosi perchè gli albanesi-kosovari si sentono protetti dall’Onu e dalla Nato e spinti, soprattutto, dalle manovre espansionistiche di Tirana. Intanto la posizione dei kosovari fedeli alla Serbia si fa sempre più complessa. I motivi vanno ricercati nella lontananza reale da Belgrado e dall’assenza di concrete informazioni sullo stato delle trattative. Tutto è affidato alla radio e alla tv dal momento che la stampa locale è in mano agli uomini dell’ex Uck e ai nazionalisti albanesi. E così se da un lato Belgrado invita a disertare le urne, dall’altro il Partito Liberale Democratico fa sentire la sua voce denunciando il pericolo di autoisolamento che corrono le popolazioni locali. Le quali, allontanandosi dalla consultazione, lascerebbero completamente agli albanesi le decisioni sul futuro del Kosovo.

Ma la posizione del “no” resta forte. Scendono in campo il primo ministro serbo Vojislav Kostunica e il presidente della Repubblica Boris Tadic i quali, pur rappresentando tendenze diverse (conservatore il primo, filoeuropeo il secondo),
si ritrovano uniti nel “no” alle elezioni. E subito devono affrontare le proteste che arrivano sia da parte dei dirigenti albanesi - che insistono nel reclamare la piena indipendenza della regione - che degli esponenti dell'Unione Europea e degli Stati Uniti i quali hanno già dato il loro avallo alla convocazione del voto di novembre. Il serbo Tadic comunque - mentre sale la tensione - lancia alcune proposte distensive. In una intervista al quotidiano di Lisbona Diario de Noticias afferma che Belgrado ''non farà la guerra'' in Kosovo. Smentisce così le recenti dichiarazioni di un membro del governo serbo, che aveva evocato l'ipotesi di un dislocamento di soldati in Kosovo in caso di dichiarazione unilaterale di indipendenza di Pristina.

Tadic precisa che quelle dichiarazioni ''sono state male interpretate''. E aggiunhe: ''La Serbia dimostrerà di essere una democrazia europea”. Comunque - ha aggiunto - “senza una Serbia stabile non ci sarà stabilità nella regione''; ed è ovvio che ''una guerra in Kosovo sarebbe uno scenario di disastro per tutti noi''. Nell'intervista, Tadic mette in guardia contro il ''precedente'' che sarebbe rappresentato da una dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo che sarebbe ''contraria alle regole del diritto internazionale'' e incoraggerebbe ''tutti i separatisti''. Ci sono ''situazioni simili'' - avverte infine l’esponente di Belgrado - ''in Bosnia, a Cipro, in Georgia, in Moldavia ed in altri paesi''.

Il fronte che si è aperto, comunque, registra anche posizioni relative a nuove trattative. Perché sono all’opera, con il diplomatico russo Aleksandr Botsan-Kharcenko (al quale il Gruppo di Contatto - composto da Usa, Russia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Italia ha deciso di affidare la prosecuzione dei negoziati sullo spinoso dossier) l'americano Frank Wisner e il tedesco Wolfgang Ischinger, indicati in rappresentanza rispettivamente di Usa e Ue. Ma il diplomatico di Mosca ha già fatto sapere che il Cremlino resta fermo nella richiesta di un accordo accettabile tanto dagli albanesi quanto dal governo serbo e che non intende piegarsi al tentativo di Washington e Bruxelles d'imporre una scadenza rigida alle trattative.

Intanto da Belgrado arriva un autorevole commento relativo alle prospettive di successo della nuova troika. C’è il direttore del giornale governativo serbo “Politika” - Ljiljana Smajlovic - che avanza molti dubbi sull'ipotesi di un compromesso in extremis e accusa Washington e Bruxelles di simulare disponibilità al dialogo dopo essersi già rimangiate definitivamente l'impegno postbellico - sottoscritto nel 1999 con la risoluzione Onu numero 1244 - a mantenere in qualche modo il Kosovo sotto la sovranità di Belgrado. A giudizio di Smajlovic le cancellerie occidentali sembrano voler in realtà utilizzare i prossimi mesi solo per cercare di accreditare come ''isolata'' la posizione di Serbia e Russia. In modo da poter poi giustificare il ''riconoscimento unilaterale'' euro-americano di un Kosovo indipendente.

Infine una notazione di carattere strategico-economico che viene da Belgrado e che riportiamo - come si dice in gergo giornalistico - “per dovere di cronaca”. Le fonti serbe fanno notare che attorno all’ex Jugoslavia si stanno sempre più aggirando i falchi delle grandi multinazionali. Tutti consapevoli dell’importanza di una regione dove le popolazioni della Serbia, del Montenegro, della Croazia e della Bosnia formano un mercato di circa 16 milioni di persone. E considerando anche i macedoni e gli sloveni, che parlano una lingua molto simile al serbocroato, la cifra sale a 20 milioni. Si arriva poi a 22 milioni se si includono gli albanesi del Kosovo che, pur detestando il serbocroato, lo comprendono perfettamente. In ogni caso, per le multinazionali, il semplice fatto che tutti i membri della famiglia della ex Jugoslavia si capiscano – quanto meno sul piano linguistico – favorisce la commercializzazione di qualunque prodotto. La globalizzazione, come si vede, è in marcia. Ed è questo il vero obiettivo - dicono a Belgrado - di quella distruzione sistematica della ex Jugoslavia. Il Kosovo è (per ora) l’ultima pedina del grande gioco dell’Occidente.

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