di Liliana Adamo

Florian Stammler, antropologo, nomade, etnologo presso l'Università di Colonia, si è recato a varie riprese nei territori degli Hanti, Mansi e Nenci, nella Siberia occidentale. Il racconto dettagliato dei suoi viaggi, di ciò ha visto e compreso vagando nelle terre del circolo polare artico, riguarda lo sfruttamento delle risorse (petrolio e gas), che alimenta la complessa macchina della nostra economia e dunque, in linea retta, il sistema nel quale stabiliamo la nostra vita d'occidentali.
In un'analisi approssimativa parrebbe cosa futile soffermarsi sulle condizioni degli indigeni della Siberia; difficile immaginare, utilizzando i più banali consumi quotidiani, persone distanti dalla nostra organizzazione sociale, costrette a vivere su quello che una volta era il loro territorio (e una delle più grandi riserve d'acqua potabile del mondo), interamente ricoperto da una spessa patina di lubrificanti, dove gli animali muoiono nella melma di scarto fuoruscita dalle raffinerie e dal trattamento dei gas. Cosa riferisce Florian Stammler? Delle comunità indigene stanziali che si trovano a nord della Russia, nella Tundra e nella Taiga, dove pure sì, era duro vivere per le impervie condizioni climatiche e tuttavia possibile, grazie alle attività di caccia, pesca e allevamenti di renne, nelle sporadiche pasture delle brevi estati siberiane

Dal momento in cui l'equilibrio tra le terre dei ghiacci e le comunità indigene che vi abitavano è stato distrutto dall'industria estrattiva russa, Nenci, Mansi e Hanti, sono costretti a misurarsi ancora più duramente con il loro territorio, per affermare il diritto alla sopravvivenza, esercitare le proprie tradizioni, serbare memoria di un'autoctonia che si vorrebbe estinta.

I precedenti sono legati a due momenti cruciali della storia dell'ex impero sovietico: l'ascesa al potere di Stalin (la confisca da parte dello Stato di territori ricchi di risorse minerarie) e la recente dissoluzione dell'Unione Sovietica con l'apertura della Russia ai mercati occidentali.
L'industrializzazione ignorò del tutto il fragile ecosistema delle zone artiche: si disboscarono vasti territori, inquinando le acque dei fiumi, interferendo nel ciclo delle acque; si distrussero le attività tradizionali delle comunità per lasciare spazio alla neonata attuazione di un meccanismo perverso. Gli indigeni, quando non decentrati in altri luoghi, furono maltrattati, reclutati nei gulag e usati come manodopera a basso costo. Il termine "minoranza" fu completamente cancellato dai testi di legge.

Durante gli anni sessanta, con il picco della produzione petrolifera, furono interamente sfigurati i territori del medio Ob, la penisola di Jamal, la regione di Magadan e la tristemente famosa isola di Sakhalin. Si costruirono strade, ferrovie, quartieri periferici come tante prigioni, che cancellarono interi territori adibiti a pastura per le renne, fu distrutta gran parte della tundra siberiana. Si pensi che soltanto a Jamal si distrussero 600.000 ettari di foresta e furono uccisi 24.000 animali, mentre i nuovi arrivati aggredivano sistematicamente la popolazione del luogo. La penisola di Eukèi, le isole Kolguev e Vajgac, furono usate per i test atomici; la gente, non evacuata a distanza sufficiente, porta ancora oggi i segni indelebili di malattie legate all'esposizione radioattiva.

L'industrializzazione selvaggia e la deforestazione, per estrarre petrolio e gas naturali, andarono avanti incessantemente fino agli anni '80. Senza esprimere la volontà d'esercitare un'autodeterminazione in materia economica, dal 1989 le comunità diedero inizio a forme d'associazionismo. Nel 1990 lo scrittore Nivko Vladimir Sanghi fu nominato presidente dell'Unione Dei Piccoli Popoli del Nord della Russia. Nella risoluzione del primo congresso, i delegati sottoscrissero i diritti fondamentali dei popoli indigeni e un'intesa unanime con la Russia, chiamata ILO n. 169, che avrebbe consentito la sopravvivenza di quelle piccole civiltà accerchiate dallo sfruttamento e dall'arroganza totalitarista. Fu in quegli anni che gli abitanti di Paren (Kamèatka), d'etnia koriaka, impedirono coraggiosamente il saccheggio delle risorse e la distruzione del loro territorio.
In breve tempo si svilupparono diverse organizzazioni che lottarono democraticamente contro lo strapotere centrale, per esempio quella dei Nenci "Jamal per i nostri discendenti", "L'Associazione del Selkupi di Tomsk", l'"Unione regionale degli Inuit" e così via. Intanto la Siberia appariva avara come una terra desolata: se qualche impresa dovette far fagotto e andarsene, nessuno raccolse mai un solo indennizzo Apparati burocratici, settarismo di natura nazionalistica, ricatti malavitosi, una crescente crisi economica, hanno fatto sì che l'esperimento di strutturazione interna delle comunità, apparisse mera illusione.

Nel 1990 il governo dell'Unione Sovietica fu sollecitato a ratificare la Convenzione Internazionale per la Tutela dei Popoli Indigeni. Si cominciò a discutere sul diritto all'autodeterminazione, sul divieto di trasferimenti forzati e la dispersione degli insediamenti, sulla necessità d'operare limitatamente con dei progetti mirati. Il governo centrale decise di reintrodurre la lingua locale nelle scuole, promuovere l'allevamento delle renne e altre attività tradizionali. Il presunto "Even Bytantaj", fu istituito in una sorta di governo auto-gestito dalle comunità originarie e dalle "unità territoriali etniche". Lo statuto venne accolto anche dallo Stato russo, dopo il crollo dell'Unione Sovietica nel dicembre del 1991.

Una manifesta "buona volontà" che non è bastata a rimediare ai guasti; Florian Stammler guarda alla Siberia come effetto nefasto dell'ex impero sovietico e dell'occidente, dove fiumi, laghi, persino i piccoli corsi d'acqua, sono biologicamente morti. In tutti i territori della vasta regione del Tjumen (Siberia occidentale), sono superati a iosa i limiti di legge per l'inquinamento, le cosiddette "Convenzioni" tra popolazioni indigene e industrie petrolifere sottoscritte sono beffardamente ignorate, le renne selvatiche scomparse, l'apertura dei campi petroliferi ingoia fino a 30 mila ettari alla volta. Il governo russo tenta in tutti i modi di privatizzare l'industria estrattiva per mantenere in piedi la voce più importante dell'esportazione e le multinazionali occidentali aprono nuovi campi, invece di bonificare e rinnovare quelli vecchi, dando fondo alle riserve indigene. Queste zone, ghiacciate d'inverno e paludose d'estate, una volta erano luoghi sacri, dove vivevano divinità delle acque e dei boschi e vi aleggiavano gli spiriti dei padri.

Sakhalin -1-2-3…

Lungo tutta la costa dell'isola di Sakhalin, a nord est della Russia, sono sorti i maggiori giacimenti petroliferi al mondo, l'asportazione dei gas naturali fa la sua parte e molti filoni estrattivi sono ancora da sfruttare. La crisi attuale convogliata sulla domanda di più risorse energetiche, gioca la sua partita per vendere concessioni miliardarie a società multinazionali, stimando nel sottosuolo circa 13 bilioni di barili, corrispondenti a 159 litri al barile.
I giacimenti di gas e petrolio già funzionanti sono stati battezzati Sakhalin -1 fino a Sakhalin-6. Il consorzio che li gestisce è formato da grandi investitori come Dutch/Shell, Exxon, Texaco, BP.
Uno sviluppo caotico e incontrollato attraversa l'intero territorio dei Nenci, Nanai, Elenchi, Orochi, Oroci; essi subiscono i costi più alti di un enorme giro d'affari, il puntello ad ogni singolo occidentale e al nostro sistema collettivo.

La federazione associativa dei popoli indigeni, RAIPON, creata ai fini di una maggiore partecipazione decisionale delle autorità locali rispetto ai giganti dei petrodollari, ha miseramente fallito ogni tentativo di mediazione. Il 20 gennaio dell'anno scorso i popoli indigeni, sostenuti dalle organizzazioni ambientaliste, hanno deciso d'occupare pacificamente i cantieri degli oleodotti in costruzione per attirare su di sé l'attenzione dell'opinione pubblica.
La tensione e il malcontento convergono soprattutto sui pozzi di Sakhalin -2, di cui la Dutch/Shell, detiene il maggior pacchetto azionario pari al 55%. Con le società giapponesi Mitsubishi (20%) e Mitsui (25%), ha fondato la "Sakhalin Energy Investment Company (SEIC), investendo somme esorbitanti e stabilendo con il governo russo un'intesa sulla partecipazione agli utili, la "Production Sharing Agreement". Le quote dei dividendi, commissionate alla Shell, sono quindi sopra la norma.

Chi finanzia il progetto Sakhalin-2? Gli Stati Uniti, con la Corporazione americana degli Investimenti Privati Oltreoceano (OPIC), la Comunità Europea attraverso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD) e il Sol Levante, vale a dire la Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (JBIC).
Sakhalin-2 costituisce una delle più gravi minacce all'ambiente sul territorio siberiano. La struttura di trivellazione Molkpaq sorge direttamente davanti alla costa, alterando l'habitat del mare: molluschi, merluzzi, salmoni e balene grigie sono in pericolo, senza contare che l'elevata sismicità rende notevolmente pericolosa l'intera zona e un terremoto avrebbe l'esito di una vera e propria sciagura per gli uomini e l'ambiente.

Le violente mutazioni osservate in prossimità di Sakhalin, sono conseguenze inconfutabili che la Shell nega ostinatamente: 900 tonnellate d'aringhe morte, spuntate a fior d'acqua, tracce di petrolio e di metallo pesante rinvenuto nello stomaco dei pesci, dimezzati gli esemplari di foche e le carcasse di questi animali sono state rinvenute sulle coste, gli uccelli che si cibavano di plancton, hanno cominciato a nutrirsi d'insetti, i pesci, fonte di sostentamento per le popolazioni indigene, emanano l'odore acre degli scarti petroliferi… Ciononostante Sakhalin-2 incrementerà i suoi impianti e produrrà altro petrolio. La seconda fase del progetto siglato Shell, Mitsubishi e Mitsui, prevede due nuove piattaforme di gas e greggio e due oleodotti di ben 800 chilometri di lunghezza per un investimento pari a 10 miliardi di dollari.

Nel giro d'affari subentra anche l'India. Secondo la stampa estera, il governo indiano è fortemente interessato ad acquisire tutto il gas prodotto dal progetto Sakhalin -1. L'accordo tra il ministro del Commercio e Industria, Kamal Nath e i rappresentanti del Russian Economic Development and Trade, si sta risolvendo in questi giorni.
Nath assicura che per l'India è sostanziale cooperare con la Russia, primo produttore mondiale d'energia, per questo motivo anche il paese asiatico parteciperà al progetto Sakhalin -1: "Con la speranza che gas e petrolio entrino nel mercato indiano al più presto, un mercato che richiede ogni anno, sempre più risorse…"

Alaska, ultimo Eden

A dispetto dell'oro nero sottoterra, "l'Alaska è un cuore che batte…" in superficie. La definizione è di George Ahmaogak, discendente degli Indiani Gwich'in, sindaco di un villaggio a ridosso dell'Arctic National Wildlife Refuge.

La popolazione Gwich'in, 7.000 individui raggruppati intorno all'Arctic Village, a Fort Yukon, a Chalkyitsik, Circle e Birch Creek, parlano la lingua originaria, l'Athabascan; sono assistiti dalle leggi canadesi e statunitensi in qualità di cittadinanza autoctona.
Ad eccezione delle ampie vallate lungo il fiume Yukon, delle coste e delle pianure, l'estremo nord del continente americano è ricoperto dalla foresta boreale e dai sentieri battuti dai caribù. La sopravvivenza dei Gwich'in deriva dalla presenza dei caribù (e viceversa), per la piccola economia dei villaggi ma, più di tutto, per un'affinità culturale e spirituale che ha radici profonde.
La storia è testimone di come queste antiche popolazioni nordiche hanno dimostrato un intimo legame con la natura e gli animali: asserzione dei Gwich'in attuali è che ogni caribù ha una parte del cuore degli umani e gli umani, parte del cuore dei caribù, entrambi, quindi, hanno una parziale cognizione gli uni degli altri.

Per mantenere vive queste memorie secolari, i Gwich'in hanno istituito una Commissione Internazionale del Caribù Porcupine (IPCC), a rappresentare le varie comunità disseminate in Alaska. I bisogni nutrizionali, culturali e spirituali per il popolo dei caribù, mettono in risalto un sacrosanto diritto civile oltre che politico, se quest'ultimo non sarà preso in considerazione, le comunità si appelleranno alle leggi internazionali sui diritti civili: In nessun caso una minoranza etnica può essere privata dei propri mezzi di sussistenza…".
La Commissione, quindi, chiede azioni immediate e durature per la tutela e la conservazione del caribù e del suo habitat, reclama la sottoscrizione di un trattato per le società che estraggono petrolio in Alaska; un trattato internazionale siglato soltanto dal Canada e dal territorio indiano dello Yukon.

E' lo stesso governo canadese a chiederne pubblicamente la ratifica al vicino più scomodo, gli USA, ma la politica di sviluppo per l'estrazione di gas e petrolio, portata avanti dal governo statunitense, ignora completamente le grandi riserve bio-culturali, in Alaska come altrove.
Le comunità indigene situate nell'estremo nord del nostro pianeta, rappresentano un'eredità per il mondo intero, meritano rispetto e attenzione.
Affidare il destino di questi popoli, fino all'estinzione, alle multinazionali del petrolio, ottemperando ai nostri convulsi bisogni, è un grave errore, un delitto contro l'umanità intera.

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